Esserci e non dimenticare, esserci e non abbassare la testa, esserci e raccogliere il testimone.
Bambine, bambini, ragazze, ragazzi, a voi per primi il mio grazie per essere qui.
Cittadine, cittadini,
autorità civili, religiose e militari presenti,
caro Signor Sindaco Marco Cogno, dear Major Mr. Thomas Winkler,soprattutto, caro partigiano Giulio:
Il mio primo pensiero lo voglio rivolgere proprio a lei: grazie, grazie a lei e grazie ai suoi compagni, alle sue compagne a cui il fascismo ha rubato la gioventù. A voi che avete dedicato, e in tanti casi perso, la vita per liberare questo Paese dalla follia nazifascista, grazie per avercelo consegnato, questo Paese, libero e democratico.
Ho avuto modo di ascoltare una sua recente intervista, Partigiano Giulio, c’erano parole di amarezza. Diceva: “non è questo il Paese che volevamo e che sognavamo”.
Voi eravate una generazione di ragazzi e ragazze che non aveva visto altro che il fascismo. Nati con il fascismo, andati a scuola con il fascismo, cresciuti con il fascismo e che dopo quell’ 8 settembre avete deciso di andare in montagna e di combattere per un modello di società che non avevate mai visto prima. Qualcuno di voi, martire della Resistenza, quella società non l’avrebbe vista mai. Non riesco a immaginare dono più grande, generosità più immensa, di quella di combattere per qualcosa che non si è mai conosciuto e di morire affinché qualcuno che verrà dopo di te, possa conoscere.
Nella nostra inadeguatezza, noi che non abbiamo nessun merito, ma solo la fortuna di essere vostri figli e vostri nipoti possiamo fare una sola cosa: promettervi che la vostra lotta, la lotta partigiana, non è stata invano. Possiamo solo promettervi che ci prenderemo cura di questa democrazia che voi ci avete regalato e di difenderla perché é fragile e minacciata ogni giorno, anche semplicemente dall’indifferenza di chi oggi considera accessorio l’esercizio del mattone fondamentale della democrazia del voto. Un Paese dove quasi una persona su due non va a votare è un Paese che sta dimenticando quale sia stato il prezzo pagato per ottenere quel diritto.
E allora prego voi tutti e tutte che siete qui, oggi, nel giorno più bello per chi ama la democrazia, di accettare la mia riconoscenza per avermi affidato il grande onore di poter fare questa orazione, la mia prima nel ruolo istituzionale di deputato della Repubblica che oggi ricopro.
Ho rappresentato per tanti anni il Paese nel mio ruolo di commissario tecnico della squadra nazionale maschile di pallavolo. È stato un grande onore quello, mi ha fatto vivere momenti ed emozioni indimenticabili, ma è un onore perfino difficile da descrivere quello di essere oggi di fronte a voi, in queste valli, in questo giorno, in questo momento della storia del nostro Paese.
Spero sinceramente di meritarlo, spero sinceramente di esserne all’altezza.
Ogni 25 aprile, da 79 anni a questa parte, noi festeggiamo la liberazione dell’Italia dalla dittatura nazi-fascista. Festeggiamo, con riconoscenza, di essere qui dopo 79 anni in un Paese libero, democratico, guidato da una bussola, la nostra Costituzione, che si fonda su un presupposto: il suo essere antifascista. Quella stessa Carta Costituzionale su cui hanno giurato e devono giurare tutti i primi ministri e tutti i membri dei Governi che si sono succeduti nella storia della Repubblica. Tutti, senza alcuna eccezione, anche quelli che la parola “antifascismo” non riescono a dirla.
La fine di quel periodo orribile della storia che oggi festeggiamo, aveva affondato le sue radici oltre venti anni prima, quando il Partigiano Giulio e tanti suoi compagni e compagne ancora non eranonati. Iniziòinsordinanutrendosidellarabbiadialcuni, dell’indifferenza di altri, dell’ignavia di altri ancora. Molto rapidamente si caratterizzò nella prepotenza e nella violenza, quella psicologica come quella fisica.
Ho l’onore e la fortuna, perché non ho fatto nulla per meritarlo, di sedere alla Camera dei deputati, nel settore più a sinistra dell’emiciclo, nel banco esattamente alle spalle di quello da cui l’onorevole Giacomo Matteotti pronunciò il suo ultimo discorso parlamentare, il 30 maggio 1924, le parole che lo condannarono a morte per mano fascista. È nel suo ricordo che voglio far risuonare, anche qui, altre parole che la nostra televisione di stato ha deciso di censurare, esattamente 100 anni dopo quell’assassinio; parole scritte da Antonio Scurati e che stanno facendo il giro del Paese, grazie a chi crede nella democrazia e vuole tenere sia la testa che la guardia altissime:
“Giacomo Matteotti fu assassinato da sicari fascisti il 1Odi giugno del 1924. Lo attesero sotto casa in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza, assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini. L’onorevole Matteotti, il segretario del Partito Socialista Unitario, l’ultimo che in Parlamento ancora si opponeva a viso aperto alla dittatura fascista, fu sequestrato in pieno centro di Roma, in pieno giorno, alla luce del sole. Si batté fino all’ultimo, come lottato aveva per tutta la vita. Lo pugnalarono a morte, poi ne scempiarono il cadavere. Lo piegarono su se stesso per poterlo ficcare dentro una fossa scavata malamente con una lima da fabbro. Mussolini fu immediatamente informato. Oltre che del delitto, si macchiò dell’infamia di giurare alla vedova che avrebbe fatto tutto il possibile per riportarle il marito. Mentre giurava, il Duce del fascismo teneva i documenti insanguinati della vittima nel cassetto della sua scrivania.”
Nella stessa aula della Camera che aveva accolto l’ultima denuncia dell’On. Matteotti, il 22 dicembre 1947, 23 anni dopo quell’assassinio, l’Assemblea approvò la Costituzione della Repubblica, esito di un lavoro straordinario di uomini e donne che avevano idee talvolta distanti fra loro, ma un obiettivo comune: siglare un patto.
Un patto capace di raccoglierci ancora oggi sotto un’unica bandiera e rappresentare il nostro essere italiani.
Un patto, è bene ricordarlo di nuovo è bene ricordarlo in ogni occasione, democratico e antifascista!
Quel testo, bellissimo, non aveva alcun riferimento allo sport: c’era un motivo, infatti, che portò i nostri padri e le nostre madri costituenti a non inserire il riconoscimento dello sport nella carta costituzionale: sempre lo stesso, il fascismo. Occorreva generare discontinuità con un’interpretazione distorta di sport che, nel ventennio precedente, era stato strumento di propaganda e divisione fra i popoli.
Lo sport ha dimostrato di essere esattamente il contrario, ovvero un linguaggio universale, un veicolo potentissimo di inclusione, comunità, pace, felicità. Pensare di poter correggere quel lavoro straordinario metteva i brividi, ma il 20 settembre 2023, in conclusione di un iter complesso ma che ha portato tutto il Parlamento a esprimersi con voto unanime, nel testo dell’Art. 33 della Costituzione sono state aggiunte queste parole:
“La Repubblica riconosce il valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dell’attività sportiva in tutte le sue forme”.
Fra pochi mesi, a Parigi, inizieranno i Giochi Olimpici. Avranno luogo in un continente, l’Europa, che ha riscoperto la violenza inaudita della guerra, anche se nel mondo oggi sono 161 i Paesi che hanno un conflitto aperto e sono 50 quelli con indici di conflitto estremi o elevati, misurando i livelli di violenza politica in base alla mortalità, al pericolo per i civili, alla diffusione geografica del conflitto stesso. In cima a questa lista ci sono Ucraìna, Palestina, Myanmar, Afghanistan, Libia, Nigeria, Yemen, Etiopia al centro di conflitti che durano da decenni e che trovano le loro cause in lotte per lo spostamento di linee di confini, per il possesso di risorse strategiche o di commerci di sostanze illegali, come la guerra dei Narcos in Messico.
Per 1.168 anni di storia dei Giochi Olimpici antichi, quelli di Olimpia, i Giochi hanno fermato le guerre. 1.168 anni, senza alcuna eccezione, un’arco di tempo equivalente a quello trascorso dall’incoronazione di Carlo Magno alla nascita di internet. Nel solo XX secolo, invece, le guerre hanno fermato per 3 volte i Giochi Olimpici.
Tanti uomini e donne di sport oggi chiedono al mondo di fermarsi, come realmente successo per quei 1.168 anni di storia dell’umanità, con una tregua olimpica che non sia la soluzione, ma possa rappresentare il rilancio di un’offensiva diplomatica. Perché tanti uomini e tante donne di sport che hanno avuto il privilegio di vivere l’esperienza del villaggio olimpico, luogo dove atleti e atlete ucraini e russi, israeliani e palestinesi, americani e afghani, cinesi e taiwanesi, indiani e pakistani possono vivere in sicurezza e in pace fianco a fianco e sfilare con la propria bandiera con lo stesso orgoglio e con la stessa dignità sanno che è possibile. Sanno che quell’utopia è possibile.
Proprio per questo motivo abbiamo davvero bisogno di Giochi Olimpici che siano, per l’ennesima volta, un simbolo di pace. Abbiano bisogno di un’utopia che diventi realtà, per 15 giorni che, come diceva Nelson Mandela, “hanno il potere di cambiare il mondo”.
Voglio allora ricordare in questo primo 25 aprile in cui la nostra Costituzione riconosce il “diritto allo sport” e a tre mesi dall’inizio dei Giochi Olimpici di Parigi, tanti sportivi che hanno dedicato i migliori anni della loro vita alla lotta per la liberazione: calciatori- partigiani come Giacomo Losi, il terzo calciatore con più presenze nella Roma, dietro solo a Francesco Totti e Daniele De Rossi, come Armando Frigo, capace di segnare una doppietta con un braccio mezzo ingessato in un memorabile Vicenza-Verona 2 a O, poi fucilato dai tedeschi per la sua lotta partigiana o come la bandiera del Como Michele Moretti e Ivo Bitetti, campione di pallanuoto, entrambi membri della brigata partigiana che il 28 aprile del 1945 catturò Benito Mussolini, in fuga nascosto sotto una coperta nel retro di un camioncino.
O come Bruno Neri, centrocampista della Fiorentina e a lungo del Torino, che perse la maglia azzurra per essersi rifiutato di eseguire il saluto fascista ai gerarchi in tribuna nello stadio di Firenze, cha lasciò il pallone per la lotta partigiana e venne ucciso, in un agguato, sull’appennino tosco-emiliano. Il suo nome di battaglia era Partigiano Berni.
E ancora Gino Bartali che salvò ottocento persone nascondendo documenti nel telaio della bicicletta con cui si allenava e Alfredo Martini, partigiano che diventerà Commissario Tecnico della Nazionale italiana di ciclismo: “Ho portato in bicicletta carichi di bombe molotov alle formazioni partigiane presenti sul Monte Morello”, raccontava Martini “e solo ora penso che se fossi caduto sarei saltato in aria”. Non saltò in aria, non cadde.
Cadde, invece, una giovane donna valdese, Jenny Cardon, staffetta partigiana, 28 anni. Aveva due fratelli anche loro antifascisti, come tutta la famiglia, e un marito, Luigi Peyronel, sergente maggiore degli Alpini, sposato durante una sua licenza, il 1 agosto 1943, e mai più visto da allora.
La mattina del 26 aprile del 1945, il giorno dopo a quello che oggi celebriamo, c’è un messaggio da consegnare ai Partigiani dell’Alta Valle.
Ci va Jenny: una donna solleva meno sospetti.
Vicino a Rio Cros però la intercetta una colonna di nazifascisti in discesa da Bobbio Pellice. La costringono a mettersi in mezzo a loro come scudo umano, per garantirsi il passaggio nella valle. Le fanno levare il soprabito.
Resta con una bella maglia a righe, gliel’ha fatta la mamma per il compleanno.
Trema, e non di freddo perché l’aria è ferma, ma i mitra sono pronti.
A un certo punto scoppia l’inferno, Jenny cade alla seconda scarica: sul terreno restano in otto.
La colonna riprende il cammino, i nazifascisti sparano ancora uccidendo tre civili: è il 26 aprile 1945. Qualche giorno dopo, nessun’arma avrebbe più sparato.
A Torre Pellice, ci sono una via e un cippo commemorativo dedicato a Jenny.
Il suo Luigi tornò pochi giorni dopo quella mattina e, a quel cippo dove è scritto il nome della sua sposa, ha portato per anni una rosa rossa.
Oggi ho portato una rosa rossa a Jenny, a tutte le donne della Resistenza, a tutte le mogli, fidanzate, compagne, mamme dei partigiani che sono cadute o che, provando un dolore ancora più atroce, hanno pianto mariti, compagni, figli caduti per la libertà.
Alle mamme dei partigiani Gianni Rodari ha dedicato versi struggenti:
Sulla neve bianca bianca
C’è una macchia color vermiglio;
È il sangue, è il sangue di mio figlio, Morto per la libertà.
Quando il sole la neve scioglie Un fiore rosso vedi spuntare:
O tu che passi, non lo strappare, È il fiore della libertà.
Quando scesero i partigiani
A liberare le nostre case,
Sui monti azzurri mio figlio rimase A far la guardia alla libertà.
Quanto volte, in questi tempi recenti, sentiamo retorici riferimenti al patriottismo. Eccoli i veri patrioti, eccole le vere patriote: donne e uomini, famosi o meno, come Giacomo Matteotti o come Jenny Cardon, capaci di dare la vita per il futuro di questo Paese che oggi “fanno la guardia” alla libertà che con la loro lotta o con il loro martirio ci hanno donato.
Ma quella guardia dobbiamo farla anche noi, senza perdere mai la speranza di migliorarlo ancora questo mondo.
La speranza ha due bellissimi figli, diceva Sant’Agostino, lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose e il coraggio per cambiarle.
Cos’era, allora, il coraggio, Partigiano Giulio?
Cos’è il coraggio, oggi? Ho iniziato ricordando le sue parole: “Non è questo il Paese che volevamo e che sognavamo”.
Lo sdegno per la realtà, il coraggio per cambiarla sono i due strumenti che voi ci avete insegnato.
Voi siete nati con il fascismo, lo avete combattuto, lo avete sconfitto e ci avete regalato la democrazia.
Noi siamo nati con la democrazia e ce ne stiamo dimenticando.
Il coraggio oggi sta nel dovere di tre azioni:
Esserci e non dimenticare,
Esserci e non abbassare la testa,
Esserci e raccogliere il vostro testimone.
Viva la Resistenza, viva il 25 aprile, viva la Costituzione! VIVA L’ITALIA ANTIFASCISTA!
Mauro Berruto