Il racconto di un partigiano antieroe tra interrogatori con la paura della morte imminente, nemici a cui si salva la vita solo perché in passato è capitato che ti dessero un pezzo di pane e noci, capi che non si facevano vedere mai e fatiche che ti fanno cadere addormentato a dispetto del pericolo.

“Tuti i moment scapa da sì, scapa da là…”

Leggi il testo qui di seguito o vai all’opuscolo originale.

Estratto dal n° 6B della serie di 12 Quaderni multimediale sulla Resistenza – Scuola e Territorio
Ricerca triennale delle classi
a.s. 1997-’98: 1^ B/IGEA e 5^ B/PNI
a.s. 1998-’99: 1^ A/IGEA e 4^ A/Op.Tur.
a.s. 1999-2000: 2^ A/IGEA e 5^ A/Op.Tur.
dell’Istituto Tecnico Statale Commerciale e Professionale per il Turismo “L. B. ALBERTI” di Luserna S. G. e Torre Pellice
Coordinata dai Proff. Luigi Bianchi e Marisa Falco

http://www.portalebf.it/partig/quaderni/quaderni.htm

Luserna San Giovanni, 13 febraio 1999

Domanda
Può raccontare qualcosa per quanto riguarda Campiglione?

Pasquet
La base a Campiglione era presso Gambotto, che aveva un albergo. Giravano intorno per fare ‘rifornimenti’, dove c’erano gli ammassi. Allora c’era l’ammasso dove i contadini portavano grano, burro… Andavano lì e prelevavano con regolare buono e, se c’erano i soldi, si pagava anche in contanti, e così c’era la giustificazione con le autorità costituite: se non c’era più grano, era perché lo avevano portato via i partigiani. Qualche volta si andava anche da privati a prelevare qualche mucca, qualche bestia da macellare. Più che altro erano grano, farina e le smistavamo, dove ora c’è la cooperativa. Si sistemava lì, oppure si distribuiva ai vari gruppi, oppure si faceva il pane che poi si distribuiva. Il pane era più ingombrante e più difficile da smistare della farina. Avevamo un centro anche a San Giovanni, di fronte all’Asilo Valdese: c’era un’osteria e lì ci si ritrovava per sapere le esigenze dei gruppi. C’era sempre bisogno di tutto: dalle scarpe, ai pantaloni, alle maglie… c’era poca roba. Qualcosa da mangiare: si prelevavano burro, farina, pasta… per il resto se non era per quello che buttavano giù con i lanci inglesi e americani, qui roba di vestiario non se ne trovava.

Domanda
Si è trovato ad operare a Barge o nelle zone della Val Luserna?

Pasquet
No, perché bisogna precisare che il territorio era diviso in compartimenti. Nella Val Pellice operavano le formazioni ‘G.L.’ e di là, in Val Luserna, il controllo era dei “Garibaldini”: ciascuno operava per conto suo… magari male, ma per conto proprio. E allora non ci sono mai stato. Ho avuto dei contatti con gente che aveva subito un rastrellamento, mi pare a gennaio del ’44. Era una decina di persone… Arrivavano dalla Gabiola, vicino a Barge, e sono saliti alla Sea da noi. Si sono fermati alcuni giorni e poi sono rientrati alla loro sede. Avevano contatti solo ‘i grossi capi’, noi non avevamo rapporti diretti con la Val Luserna e Montoso.

Domanda
E le zone di Villar Pellice e Bobbio Pellice?

Pasquet
A Bobbio Pellice il gruppo era stato formato dal capitano Prearo, ‘il Capun’, ufficiale della Guardia alla frontiera, che aveva radunato ex alpini e gente di Bobbio. Più in giù si era costituito il gruppo Ventuno, detto ‘fil di ferro’, ai Chabriols. Su a Villar e Bobbio hanno operato bene, perché stavano ‘tranquilli’ per evitare che bruciassero le case, ma quelli bruciavano ugualmente. E’ stato un fatto però limitato.
Hanno avuto il merito di ‘far sloggiare’ la milizia da Bobbio, perché c’era un presidio in una grossa caserma in direzione del cimitero: lì erano alloggiati 42 militi della Confinaria. I partigiani avevano già fatto un attacco in collaborazione con quelli della bassa valle all’inizio di dicembre 1943, ma poi era andata a buca.
Poi hanno riattaccato. Hanno assediato di nuovo la caserma al 2 febbraio del ’44; gli altri hanno chiesto rinforzi da Pinerolo. E’ arrivato un grosso contingente di milizia repubblichina che è risalito fino ai Chabriols, fin dove c’era la partenza della seggiovia. Sono arrivati lì, dove noi del gruppo della Sea – 14 uomini in tutto – appostati sull’altura siamo riusciti a fermarli fino alla sera. Alla sera si sono ritirati con forti perdite, mi pare una cinquantina tra morti e feriti; mentre noi avevamo un solo ferito leggero. Quelli di Bobbio sono scesi ed hanno recuperato un mortaio che loro avevano abbandonato; l’hanno portato su ed hanno incominciato a bombardare la caserma. Gli altri, visto che non arrivavano rinforzi e li bombardavano, hanno deciso di arrendersi.
Li hanno presi tutti e 42 prigionieri e li hanno portati sopra Bobbio, verso Malpertus. Il giorno dopo, i repubblichini hanno preso degli ostaggi: hanno bruciato diverse case dell’Inverso e hanno preso ostaggi tra i ‘notabili’ del paese e poi hanno fatto lo scambio ai Chabriols, ai Pian di Boula. Noi abbiamo consegnato i 42 prigionieri e loro hanno lasciato in libertà gli ostaggi.
Durante il rastrellamento di agosto, il gruppo di Bobbio e di Villar era grosso, in Alta Valle, dalla Vittoria in su, non c’erano tedeschi. Per il rastrellamento di agosto è stato colpevolizzato Prearo, non tanto per l’azione tedesca, forse non aveva tutte le colpe lui, quanto per la disfatta. Centinaia di nemici con autoblindo… C’era poco da fare. Uno avrebbe potuto mettersi su per la strada che va verso il Prà, mettersi al Mirabuc per fermarli, ma poi, cosa sarebbe successo? Avrebbero bruciato tutto! Forse è stato un bene non aver resistito ‘troppo’, perché avrebbero forse messo a fuoco tutta la valle.
Dopo il rastrellamento di agosto ci siamo rifugiati tutti in Francia, dove non siamo stati accolti proprio con entusiasmo, perché prima avevamo bruciato loro tutto… Siamo stati 3-4 giorni e poi siamo rientrati. Di lì non ho più avuto contatti con quelli dell’alta valle: sapevo che c’erano e che hanno sempre lavorato bene. C’erano dei capi squadra validi come Abele, che ci sapeva fare. Sarebbe bello accettassero di venirvi a parlare, ma non è facile: non se la sentono più di ricordare.

Domanda
Vorremmo avere informazioni su Bricherasio…

Pasquet
La storia del gruppo di Bricherasio è ben documentata dal libro di Gilli, “La guerra di Bastian”. Bricherasio era un gruppo forse un po’ a sé; c’era forse qualche ‘infiltrato’ di Torre, 3 o 4 persone che conosco bene; mentre gli altri erano bricherasiesi. Erano a casa loro e lì andavano, non facevano proprio ‘gruppo’, finchè sono stati lì nei dintorni; poi, quando sono andati in pianura, si sono divisi in diversi gruppetti nelle varie cascine.

Domanda
Potrebbe parlarci della Sea e spiegarci come mai ci è andato?

Pasquet
C’era un giovane, che lavorava da mio padre in segheria ed era andato alla Sea, dopo l’8 settembre. Lì c’era al comando un mio professore della prima ginnasio, un buon insegnante. A metà novembre, ho ricevuto la cartolina precetto: avrei dovuto presentarmi a Pinerolo per arruolarmi nella Repubblica Sociale con destinazione Alpini. Ho pensato che se fossi andato negli Alpini, mi avrebbero mandato in Croazia o in Grecia, come molti altri che conoscevo e che non si erano certo trovati bene. Poi, parlando con mio padre, ho deciso di andare alla Sea.
Mio padre allora ha contattato il suo ex dipendente e un giorno prima di presentarmi a Pinerolo (9 dicembre), mi è venuto a prendere. Sono salito alla Sea dove ho trovato un sacco di gente che conoscevo, tutti tranne uno o due che erano di Torino. Mi sono trovato proprio bene: tutti erano amici. Il comandante era Mario Rivoir, il vice era Ronfetto Telesforo, un sergente maggiore degli Alpini. Rivoir era più disponibile; mentre ‘Pot’ era più duro.
Una notte è stato dato l’allarme ci siamo alzati tutti, abbiamo preso il fucile e siamo partiti per un’azione. Ronfetto ci ha portati tra Torre e San Giovanni, dove c’è adesso la Villa Mantelli e ci ha fatto raccogliere cavoli in un campo. Solo per tenerci in esercizio! Ci ha fatto saltare giù di notte per raccogliere cavoli!
Facevamo i nostri turni di guardia normale di 2 ore durante il giorno e 2 durante la notte e il gruppo intanto si ingrossava sempre di più, tanto che un gruppo è stato scaglionato alla Tarva, una baita più in basso. Avete visto la fotografia. Gli altri sono rimasti alla Sea; noi si andava e veniva tra le due basi, altri, arrivati un po’ dopo, sono andati agli Ivert, sulla strada per il Valanza. Lì siamo stati da dicembre 1943 fino al 21 marzo 1944, quando hanno incominciato il rastrellamento.
Di lì siamo scappati in Val d’Angrogna, alle grange di Suiran, ma abbiamo fatto una fatica… Avevo appena compiuto diciotto anni, ero un ‘buciassun’ (ragazzo cresciuto), non ero abituato a fare vite tanto grame: a casa ero coccolato e ritrovarmi lì nella neve fino alla pancia… tirarmi fuori tutto da solo… ho faticato parecchio. Siamo arrivati alle grange e abbiamo dovuto scoperchiarne una per entrare: c’era tanta neve, ci siamo ficcati lì dentro. Mi sono accucciato in un angolo su un po’ di fieno e mi sono addormentato e non ho mai dormito così bene, neanche nel letto di casa mia!
Di lì siamo scesi un poco più in basso, perchè il rastrellamento era finito: ci siamo sparsi un po’ dappertutto lì ad Angrogna. Con altri cinque o sei amici sono andato sotto la Vaccera, dove mio papà aveva un ‘ciabotass’: ci siamo riparati lì un paio di giorni.
Però quella ciabota era proprio vicino alla strada della Vaccera… Infatti una mattina, uno si alza per andare fuori a prendere l’acqua per il caffè… caffè… erano ghiande tostate e macinate… Apre la porta e vede una fila sulla strada… La vede perché non c’erano ancora le foglie, perché era appena l’inizio della primavera … Richiude pian piano la porta e dice: “Son lì chi van su”. Ci siamo chiesti cosa fare. Se fossimo usciti ci avrebbero sparato. Abbiamo deciso di rimanere nascosti fino a quando non fossero passati. Dopo un po’ abbiamo guardato dalla porta che non ci fosse più nessuno e ci siamo infilati in un canalone … non ci hanno visto.
Ci siam divisi. Siamo rimasti solo più in quattro, su ad Angrogna, sopra Buonanotte. Abbiamo chiesto ad una famiglia se ci lasciava dormire nel fienile e ci hanno offerto di cucinarci qualcosa, se avevamo provviste. La moglie le avrebbe cucinate, ma questa brava donna aveva appena partorito una bambina… avrà avuto 15 giorni questa bambina.
Questa povera donna non aveva quindi tempo per fare da mangiare anche a noi. Oltretutto non era capace e, a dire la verità, non era neanche capace a guardare la bambina… Non sapeva fare niente, questa buona donna. Morale: uno di noi cullava la bambina, un altro la cambiava, un terzo cucinava… e lei stava tranquilla. E’ stata anche quella un’esperienza.
Ricordo che il più vecchio di noi, che aveva venti anni, aveva già avuto esperienza con il figlio di sua sorella e sapeva come si trattano i neonati e aveva insegnato alla donna come si fasciano i bambini. Io ho suggerito un metodo più sbrigativo: abbiamo allungato la fascia sul tavolo; uno ha dato una leggera spinta alla bambina e l’ha fatta rotolare sulla fascia e un altro l’ha raccolta già fasciata! Bella esperienza! Ho saputo che quella bambina sta bene ed è sposata a San Germano. E’ venuta su ugualmente, malgrado noi!
Siamo stati lì tutto un mese e poi ci siamo allontanati più in alto e scendevamo solo a prendere il latte o a fare la ‘veja’, la veglia, in una delle stalle con la gente del posto.
Ad Angrogna ho trovato ospitalità, sono forse stati i mesi migliori che ho passato, non solo del periodo partigiano, ma addirittura della mia gioventù. Hanno anche cercato di insegnarmi a ballare… senza successo!
Siamo rimasti da fine marzo a luglio ’44, poi ci hanno mandati in alta valle a Bobbio, dove facevo il cuoco. Immaginatevi la mia abilità. Subito sono andato nella banda Martina al Col di Saret da Villar sopra la Liussa e poi a Bobbio, nella squadra Comando a Villa Principe, dove c’erano tutti i grandi capoccia che mangiavano. C’era roba sufficiente per far da mangiare e da lì sono andato in Francia, poi a Prarostino a Pralarossa. Lì non mi è piaciuto per niente.
Sono rimasto solo il mese di settembre, ma ne ho avuto abbastanza: un giorno sì e un giorno no, c’era il rastrellamento… ‘Tuti i moment scapa da sì, scapa da là…’. Vatti a nascondere di qui, vatti a nascondere di là.
Più tardi, eravamo rimasti in pochi, perché qualcuno era tornato a casa per qualche giorno, mi incaricano di prendere il mitragliatore e mi assegnano una postazione dove dovevo rimanere mentre gli altri si sarebbero spostati più in alto. L’incarico era di non sparare fino a quando non avessimo visto i nemici raggiungere la seconda curva…
Aspettiamo un po’ e vediamo i nemici alla prima curva e ci chiediamo se gli altri ci avrebbero dato la copertura. Nel dubbio pensiamo di sparare una raffica e di stare a vedere… Sparata la raffica, vediamo i nemici nascondersi dietro rocce e cespugli… Ho preso il mio mitragliatore, il mio compagno, la cassa di munizioni e siamo arretrati… ma dietro non c’era più nessuno. In quel momento ho capito con chiarezza che rischiavo la pelle per degli incoscienti e ho deciso di andarmene a casa, ad Angrogna.
Sono partito una sera da solo e sono andato a Pramollo; sono salito alla Vaccera, poi ridisceso da quella famiglia di Angrogna, madre padre e bambina, per chiedere ospitalità per una notte. Mi hanno lasciato dormire nel fienile e ho chiesto loro di lasciarmi dormire, a meno che non ci fosse stato qualche pericolo, perché ero morto di stanchezza.
Al mattino, a me era sembrato di aver dormito pochissimo, mi sveglia per avvertirmi che i nemici stavano arrivando… Ho avuto appena il tempo di prendere il mio parabellum e di nascondermi dietro un cespuglio… Dopo pochi minuti vedo sette o otto tedeschi a circa 10 metri di distanza che salivano. Ho tolto la sicura al parabellum e ho pensato che, se mi avessero visto, avrei sparato e poi tentato di scappare… con il pensiero che se mi avessero sparato mentre correvo, almeno non me ne sarei accorto… Non so se sia stata la paura o il sonno, fatto sta che sono caduto sul parabellum addormentato o svenuto… non so.
Verso mezzogiorno sento la voce di uno del posto che mi chiamava, perché aveva paura che mi avessero preso.
Successivamente mi è stato chiesto se volevo far parte dell’Intendenza di valle a Torre. L’unica cosa positiva di essere stato un solo mese a Pralarossa di Prarostino l’ho verificata quando mi hanno catturato a Campiglione Fenile.
Arrivavamo con le biciclette da Gemerello e siamo stati fermati ad un posto di blocco, dove ci hanno chiesto i documenti. Noi li avevamo, falsi, ma li avevamo. Controllano e ci dicono di aspettare, perché in paese si stava svolgendo il rastrellamento. Io ho chiesto se potevamo andare per un’altra strada prima che iniziasse il coprifuoco. Non ce lo permettono e ci portano in piazza, dove ci chiedono da dove provenivamo e perché ci trovavamo lì. Abbiamo dato giustificazioni: io dicevo che ero stato incaricato da mio padre di comprare del legname e che non ero partigiano. Ma uno della Brigata Nera dichiara di avermi conosciuto a Pralarossa, sopra Prarostino. Non ho potuto negare che mi ero fermato un mese, solo per provare, per fare un’esperienza, ma che poi ero tornato a casa. Comunque mi ordinano di seguirli a Pinerolo.
Una musica!!! Ci hanno sbattuti subito in cella e poi riportati su per controllare i documenti… Io ho dichiarato di non averli più, perché mi erano stati ritirati al posto di blocco. Invece, appena arrivato in cella, li avevo bruciati, per non permettere che scoprissero che erano falsi… si vedeva lontano un miglio che erano falsi! Non c’era il timbro a secco…
Comunque insistono di vedere i documenti e io insisto che me li hanno ritirati o sono andati persi mentre mi malmenavano, spostandomi di qua e di là. Il tenente aveva verificato che non ero soggetto a obblighi di leva. Ci riportano in cella e uno delle Brigate Nere mi suggerisce di chiedere di andare al gabinetto; io chiedo e mi accompagna proprio lui che svela di stare lì solo per rendersi utile e trasmettere magari messaggi alla famiglia. Mi ha fornito taccuino e matita e ho scritto ai miei di dichiarare che ero nato il 4 settembre 1926 e frequentavo il Liceo di Torre Pellice e che avevo fatto un mese il partigiano a Pralarossa.
Questo secondino lo ha recapitato ai miei, perché potessero regolarsi circa le risposte, se fossero stati interrogati. In casa mia c’erano degli austriaci, tutti anziani, arrivati dalla Russia, tutta gente che ne aveva piene le tasche della guerra… Al mattino partivo con i libri sotto il braccio e facevo finta di andare a scuola, invece andavo agli Appiotti con gli amici Peyrot dell’Intendenza. Uno degli austriaci aveva l’ufficio proprio a casa nostra, è andato a testimoniare che mi vedeva tutti i giorni e così, dopo 15 giorni mi hanno rilasciato.
Sono tornato a casa sano e salvo, ammaccato, però la pelle non ce l’ho lasciata. Francamente è meglio così.
Non so se effettivamente sia valsa la pena per quelli che sono morti. L’ideale era buono, però, visti i risultati… C’è la libertà, però… Ci sono tante di quelle ingiustizie, tanta di quella disonestà… ne valeva la pena lasciarci la pelle? Non so.
Tante volte uno legge le lettere dei condannati a morte della Resistenza, il comportamento che hanno avuto davanti al plotone d’esecuzione, è stato notevole. Quando ero in prigione, francamente, non me ne importava niente.
C’era uno di Torre Pellice, un po’ ‘tocchetto’, tutti i santi giorni arrivava alla porta della cella aperta e diceva: “Magari, doman at masu”. Tutti i giorni quella solfa lì… non è che avessi paura, non mi faceva piacere, ma non volevo dare la soddisfazione di farmi vedere pauroso.
Quello avveniva un po’ in tutti: ho visto altra gente che era con me in prigione che aveva, come di fatto è accaduto, più probabilità di me di essere fucilata, ma nessuno ha mai fatto vedere di avere paura. Anch’io, francamente, dentro di me ho cercato, e ci riuscivo, a mascherare la paura; anche se l’idea di morire a 19 anni… Si riesce a mascherare la paura in quei casi lì.
A proposito di paura: c’era uno lì delle Brigate Nere, in uno degli ultimi interrogatori, che mi chiede se non mi avessero ancora ammazzato. L’ho guardato bene in faccia: quella faccia mi è rimasta impressa. All’inizio di maggio ero giù con Giulietto con la squadra di Meo a Vigone: arriva una squadra e chiede se conoscevamo quello che avevano catturato. Era un po’ mal combinato e aveva preso botte, ma l’ho riconosciuto: era quello della Brigata Nera di Pinerolo e che aveva fretta che mi uccidessero.
Gli ho chiesto cosa ne pensava se lo trattavo nello stesso modo. Si è giustificato, ma dopo un paio di giorni hanno deciso di farlo fuori. Mi chiede se potevo chiamargli un prete. Sono andato. C’era qualcuno che contestava, ma io ho detto che non ci dovevamo mettere sullo stesso piano loro, ma dimostrarci superiori. Il prete mi chiede di stare vicino al condannato, perché aveva una paura tremenda: mi sono chiesto se dovevo farlo proprio io. Questo qui mi manda a chiamare: era una maschera di sangue raggrumato e mi ha chiesto se potevo lavarlo. L’ho fatto.
Il giorno dopo l’avrebbero fucilato. Mi manda di nuovo a chiamare alla sera per chiedermi di accompagnarlo all’esecuzione. Cerco di evitarlo dicendogli di non essere nemmeno cattolico. La scelta era caduta su di me perché ‘avevo la faccia più buona degli altri’, come mi aveva detto. All’ora stabilita, sono andato con lui fino al greto del fiume e mi teneva per mano. Gli ho detto che forse era meglio che mi lasciasse andare. Mi ha chiesto di recitare il Padre Nostro insieme a lui e lo abbiamo fatto ciascuno alla sua maniera, poi mi sono allontanato e ho chiesto al plotone di aspettare finchè non ero lontano…
A me vedere ammazzare a freddo le persone… Ho solo sentito gli spari… L’ultima raccomandazione è stata per sua sorella: mi ha fatto promettere che se fosse venuta a cercarlo, dovevo indicare il luogo della sepoltura, perché voleva essere sotterrato a Pinerolo.
Passano 3 o 4 giorni: lo ricordo come ora. Eravamo seduti ad un tavolo ed entra una signora a chiedere notizie del fratello. Il vero motivo era cercare nel suo portafoglio: del fratello non le importava nulla. L’abbiamo presa di peso e sbattuta in mezzo alla strada. Questo episodio mi è girato sempre nella testa: meritava di morire lei al posto del fratello.

Domanda
Ma lei non si è sentito il dovere di tentare qualcosa per evitare questa fucilazione?

Pasquet
Ma io non contavo niente, contavo per uno.
Mentre ero in prigione a Pinerolo e aspettavo un altro interrogatorio, un milite che faceva la guardia e mangiava pane e noci, me ne ha offerte. Ho accettato un pezzo di pane e una noce spaccata e poi una sigaretta… Non lo avevo mai visto, ma ne ho apprezzato la generosità.
Passato molto tempo, quando sono arrivati i giorni della Liberazione, quando i militi fascisti sono stati chiusi al Collegio Valdese, sono andato anch’io e mi hanno riconosciuto come uno dei prigionieri della casa Littoria. Anch’io ne ho riconosciuto uno: era quello delle noci e del pane. Gli ho detto di seguirmi e l’ho portato dal superiore responsabile ed ho chiesto che non fosse maltrattato. Dopo qualche giorno è rientrato a casa.
Non è che tutti i buoni fossero da una parte e tutti i cattivi dall’altra.

Domanda
Per quanto riguarda Bibiana, qualcosa di particolare?

Pasquet
So solo dirvi dell’attacco alla caserma da parte dei gruppi di Bibiana e di Bricherasio: eravamo talmente ‘ben organizzati’ che i mortai sono finiti a Bibiana e le munizioni a San Secondo!!L’attacco è andato ‘a buca’: tanti non vorrebbero dirlo, ma la disorganizzazione fu veramente molta e fece ‘saltare’ l’autorità di Prearo. A luglio eravamo già in troppi: certi comandanti, in grado di guidare20-25 uomini, non erano capaci ad organizzarne 200… e questo fu il caso di Martina…

Domanda
Che tipi di rapporti c’erano tra i partigiani e i comandanti? Li vedevate?

Pasquet
Qualcuno si vedeva.. io però Roberto Malan, che era comandante generale, non l’ho mai visto, nessuna squadra l’ha mai visto. Stavano per conto loro da qualche parte…
Altri invece si vedevano.

[fine]