Il formarsi delle bande partigiane in Val Pellice, l’arruolamento, la vita in banda, la difficoltà di addestrarsi e imparare a fare la guerra, l’organizzazione interna, gli errori..; e il racconto vivido e dettagliato delle prime imprese. Medico di primo soccorso della banda della Sea di Torre, il “Dutur Gechiss” (forse una deformazione di “Dottor Jekill”), Franco Davite è il partigiano che dopo la guerra s’è trovato a diventare pastore valdese e non ha rinnegato di aver usato le armi.

“Abbiamo dovuto farci le ossa”

Leggi il testo qui di seguito o vai all’opuscolo originale.

Estratto dal n° 6C della serie di 12 Quaderni multimediale sulla Resistenza – Scuola e Territorio
Ricerca triennale delle classi
a.s. 1997-’98: 1^ B/IGEA e 5^ B/PNI
a.s. 1998-’99: 1^ A/IGEA e 4^ A/Op.Tur.
a.s. 1999-2000: 2^ A/IGEA e 5^ A/Op.Tur.
dell’Istituto Tecnico Statale Commerciale e Professionale per il Turismo “L. B. ALBERTI” di Luserna S. G. e Torre Pellice
Coordinata dai Proff. Luigi Bianchi e Marisa Falco

http://www.portalebf.it/partig/quaderni/quaderni.htm

Luserna San Giovanni, 25 gennaio 2000

Davite
Non avevo ancora 19 anni quando iniziò la Resistenza.
Il mio curriculum nella Resistenza è stato una prima parte qui in Val Pellice, nel gruppo della Sea fino alla fine del marzo del ’44 poi avendo un documento di esonero valido, la qual cosa era piuttosto rara, il Comitato di Torino mi ha chiesto di scendere a Torino per lavorare presso il Servizio Informazioni, dove normalmente c’erano dei documenti falsi, e quindi facilmente individuabili, e lì sono rimasto fino nel dicembre del ’44.
Quando la mia presenza, troppo regolare in posti dove non avrei dovuto essere, cominciava a insospettire la polizia tedesca e fascista, sono ritornato su e sono stato più o meno tranquillo per alcuni mesi, fino a partecipare poi di nuovo attivamente fino alle ultime settimane prima della Liberazione e alla Liberazione stessa.
Quindi del gruppo della Sea, ho un’esperienza diretta nei primi sei mesi di attività e relativamente, come dire di seconda mano, per l’altro periodo.
Io vi vorrei fare, molto rapidamente due parole di introduzione generale. L’introduzione è questa: la Val Pellice, con alcune zone del Cuneese, la zona di Boves in modo particolare, è il luogo in Italia dove è nata la Resistenza armata al nazifascismo, e questo perché sia nella Val Pellice, che in questa zone del Cuneese, dove c’erano persone come Nuto Revelli ed altri del genere, c’era una forte presenza di un movimento clandestino di Resistenza al fascismo, evidentemente sorto durante gli anni del fascismo, che aveva preso il nome di Giustizia e Libertà, Partito D’Azione (PDA).
Era un movimento socialista, radicale, ma non di ispirazione sovietica, quindi in questo si differenziava dal Partito Comunista, presente in Piemonte, soprattutto nelle zone operaie di Torino, anche qui come movimento clandestino, evidentemente. Per cui già molto prima dell’8 settembre, si pensava all’inizio di una Resistenza, attiva e armata, per accelerare la fine del fascismo e accelerare la fine della guerra per quello che ci riguardava.
Ma naturalmente le cose sono andate in modo molto diverso, perché quando è arrivato l’8 settembre qui in Val Pellice, c’era un gruppo di persone, spesso degli studenti ma anche degli operai e dei contadini che formavano questa cellula del Partito D’Azione, i quali sono stati pronti a recuperare nelle caserme della zona quel po’ di armamento che c’era e ad organizzare i primi gruppi sia di volontari, sia di soldati che fuggivano dalla cattura da parte dei tedeschi e che arrivavano qui più o meno avventurosamente ed avevano bisogno di essere organizzati.
Per questo motivo la Val Pellice è stata sede di uno dei primissimi gruppi della Resistenza italiana e sia a Villar Pellice, organizzati intorno al capitano Prearo, sia a Torre Pellice, organizzati attorno al capitano Rivoir, l’uno e l’altro erano non degli alpini, ma della Guardia alla Frontiera, cioè di un corpo militare che avrebbe dovuto sostituire gli alpini tradizionalmente molto poco fascisti.
Questo vi dà da una parte il motivo per cui abbiamo avuto subito questo movimento organizzato, ma dall’altra parte c’è un aspetto negativo della Val Pellice: mentre nel Cuneese c’erano i resti della spedizione italiana in Russia. Quei non molti che erano ritornati dalla divisione cuneense che di guerra ne avevano vista fin sopra i capelli e ne conoscevano tutti gli aspetti, tutti i dettagli: guerra regolare, Resistenza, etc. Invece il 3° Alpini, che riuniva gli uomini della Valle, del Pinerolese, Val Pellice, Val Chisone, Val Germanasca erano in Jugoslavia per cui parecchi sono passati con i partigiani di Tito, i partigiani contro cui avevano combattuto fino a quel momento, e parecchi sono stati ‘beccati’ sulla strada del ritorno clandestino dai tedeschi e finiti nei campi di prigionia militare, non di eliminazione, non è che stessero molto meglio, in Germania.
Per cui qui non avevamo praticamente nessuno che avesse esperienza di guerra; eravamo parecchi giovani entusiasti, studenti, cioè molto idealisti e poco pratici, come militari effettivi c’erano due ufficiali di carriera, che non avevano fatto la guerra, un sottufficiale o due di Istruzione di Torre che sapevano molto bene dare il ‘fianco destr’ e il ‘fianco sinistr’, ma non avevano nessuna esperienza militare e alcuni, pochissimi, due o tre alpini, del 3° Alpini che erano qui all’8 settembre, perché in convalescenza per malattie o per ferite.
C’era il Poluccio Favout; c’era quello che ha organizzato il gruppo dei Chabriol, Poet… Erano veramente pochissimi, per cui abbiamo dovuto farci le ossa, contro dei fascisti che non valevano molto più di noi, ma contro dei tedeschi che la guerra la sapevano fare.
Questo ha fatto sì che alla fine avessimo dei gruppi ben strutturati, comandati da gente venuta dalla gavetta, come si dice, ma che pagassimo un prezzo di morti parecchio alto, morti e prigionieri finiti poi a Buchenwald o a Mauthausen (in Austria), da dove sono tornati in pochi.
Questo vi spiega l’inizio della storia della caserma di Bobbio, dove c’erano i militi fascisti.
Probabilmente sapete che nell’Italia fascista c’era una doppia organizzazione militare: il Regio esercito tradizionale o esercito di stato e la Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale, che era composta da persone almeno teoricamente uscite dai ranghi del partito fascista e che doveva servire un po’ da polizia ed un po’ da contrappeso all’esercito vero che era più fedele ai Savoia che a Mussolini.
Primo attacco a Bobbio Pellice il 1° dicembre del ’43, fatto con grande buona volontà, da ‘bon omet’, destinato a fallire perché tutti sapevano in valle che noi avevamo attaccato le caserme – era accaduto già 2 giorni prima – quindi lo sapevano anche loro e quindi il piano di sorpresa è fallito. Ingenuamente avevamo tagliato i fili del telefono civile, non avevamo pensato che anche i soldati conoscevano l’uso del telefono; non si era tagliata la linea militare, per cui attaccata alla sera la caserma, nella notte arrivano da Pinerolo un’autoblinda e due camion di tedeschi; il gruppo dei Chabriol tenta ingenuamente di fermarli mettendo un albero di traverso sulla strada, ma era una “bropa” non molto grossa e c’è voluto molto poco a spingerla via con l’autoblinda, non sono neanche scesi.
Un morto per parte, un tedesco e un partigiano, poi sono arrivati a Bobbio: i partigiani hanno avuto soltanto la possibilità di tagliare la corda al più presto prima di farsi beccare tra due fuochi.
Però la partita era rimasta in sospeso e riprende all’inizio di febbraio.
Il 2 febbraio, la caserma di Bobbio è di nuovo attaccata dal gruppo Prearo di Villar Pellice e dal gruppo di Bobbio.
Sproporzione di persone perché molto più numerosi i fascisti; sproporzione di armamento, perché noi avevamo dei vecchi moschetti, la famosa artiglieria “ a – sciancùn”, che consisteva nell’innescare, con un detonatore da mina e un pezzo di miccia, una bomba da mortaio da 45 e poi lanciarla con un sistema di “Davide Antico Testamento” come una fionda girata, e se non giravi bene ti faceva cascare la bomba sulla testa. Se la miccia era misurata bene e tutto quanto arrivava nelle vicinanze del bersaglio o non troppo lontano, faceva un bel “boom”, ma non molto di più.
Il gruppo della Sea, il gruppo dei Chabriol e un gruppo di Bibiana avevano l’incarico non molto semplice di fermare eventuali rinforzi che arrivassero da Pinerolo.
Questa volta i fili del telefono erano stati tagliati tutti, ma nel frattempo i fascisti avevano fatto dei ‘progressi tecnologici’ ed avevano la radio… e quella non si era potuto fermarla, naturalmente.
Il mattino del 3, verso le 8.00, parte una colonna da Pinerolo formata da 4 camion pieni di truppa e due autoblindo e armi medio pesanti: due mortai da 81 destinati contro i partigiani di Bobbio, mitragliere da 20 che sparavano proiettili esplosivi, mitragliatrici e fucili mitragliatori in quantità industriale. Il primo gruppo, quello di Bibiana, coraggiosamente apre il fuoco con un fucile mitragliatore italiano che si inceppa subito contro l’autoblinda: niente da fare. Li hanno rallentati un pochino, per circa 20 minuti, perché i tedeschi hanno incominciato a sparare in tutte le direzioni, pensando che i partigiani fossero molto più numerosi di quanto erano in realtà; verso le 10 del mattino, sono arrivati a Rio Cros.
Sapete dov’è Rio Cros? Sapete dov’era la seggiovia della Sea? Sapete dov’è Villar Pellice? Torre Pellice, Ospedale Valdese all’uscita di Torre? In punta alla prima salita, 200 metri oltre l’Ospedale Valdese, dove sarebbe poi partita la seggiovia. La strada attuale non esisteva, la vecchia provinciale, la via Grossa, passava da Santa Margherita e faceva una curva dove ci sono le case a sinistra della strada salendo verso Villar Pellice e poi a Rio Cros faceva una doppia curva.
Rio Cros porta bene il suo nome: è un rio profondo, scavato. La strada, dunque, faceva una prima curva a destra a gomito e una curva stretta a gomito a sinistra prima di infilarsi dove adesso c’è la segheria di Poet, nella zona chiamata La Vittoria, perché li c’era una “piola” aperta nel 1918, al termine della grande guerra. Era il posto buono per tentare di fermare una colonna per due motivi, il primo perché dovevano rallentare, il secondo perché soltanto una parte della colonna sarebbe stata in condizione di rispondere al nostro fuoco, gli altri sarebbero stati già troppo avanti o ancora troppo indietro, dietro a delle case che c’erano lì e che sono state ben crivellate dalle due parti. Il posto è stato scelto in modo intelligente. Cos’era il gruppo della Sea? Era un gruppo di una quindicina di persone, di giovani, di cui 13 come me, del 24; i più vecchi delle classi 20-21 e i ragazzini diciottenni, i “bocia”. Il comando del gruppo, e questa è stata da subito una difficoltà, era del capitano Rivoir che abitava a Torre Pellice; aveva una salute assai malferma e per questo era diventato ufficiale negli uffici e non in un corpo combattente; non abitava con noi, non viveva con noi, ma a Torre e anche se veniva su spesso, aveva in banda una attività molto limitata, “…perché i tedeschi hanno incominciato a sparare in tutte le direzioni, …” sia perché non sempre presente, sia perché vivendo in una zona dove c’erano i fascisti, doveva essere abbastanza cauto nel muoversi. Il comando effettivo del gruppo era tenuto da un sottoufficiale degli alpini che si chiamava “Pot”, riduzione di ‘Tepot’, suo fratello si chiamava ‘La teppa’ – questo ci dà subito un’idea di cos’erano i nostri gruppi ad un certo momento. Era un uomo che aveva se non altro del buon senso: è stato un buon comandante, almeno nel periodo in cui io sono stato lì; si prendeva veramente cura del gruppo, si preoccupava di molto ed era attivo; anche dal punto di vista militare, la sapeva molto più lunga di noi; infatti lo spiegamento partigiano è stato montato bene. Come armamento, non si andava lontano: avevamo una mitragliatrice pesante e due fucili mitragliatori, più gli altri che erano armati con moschetti a canna corta (i vecchi fucili 91, le ‘brope’, che però non erano malaccio come tiro, non si sapeva neanche dove fossero, non li avevamo trovati), e quindi il moschetto aveva una portata abbastanza corta e un’imprecisione molto notevole, comunque si faceva quel che si poteva. Avete un’idea di che cosa siano una mitragliatrice o un fucile mitragliatore? La mitragliatrice è un’arma con un calibro più o meno di un fucile, spesso un po’ maggiore di un fucile normale calibro 7-8 mm.; l’arma è montata su un tripiede fisso e la si muove con movimenti vari e ha una canna della lunghezza normale di un fucile però, essendo appoggiata in modo stabile, ha una precisione di tiro molto maggiore e quindi una portata molto migliore di un fucile mitragliatore; mentre il fucile ha una portata utile di 300 m. e un mitragliatore sui 500, una mitragliatrice, se usata bene, arriva a colpire dei bersagli, non una persona singola, ma un bersaglio un po’ più grosso sul chilometro e quindi è l’arma di precisione, naturalmente ci vuole un momentino di più a spostare il tiro. Il fucile mitragliatore è una cosa di mezzo tra un fucile e la mitragliatrice; non ha un tripiede fisso, ma un bipiede; normalmente davanti ha la forma di un fucile, un po’ più pesante di un fucile, quindi ha una maggior stabilità di tiro; lo si appoggia, si spara normalmente coricati a terra con il bipiede appoggiato davanti, lo si tiene giù, quindi ha una stabilità maggiore che un fucile normale e spara a raffica, invece di sparare a colpo singolo, caricando ogni volta come i fucili della seconda guerra mondiale o semiautomatici come sono i fucili attuali, spara a raffica con caricatori di 20-30 colpi ciascuno; mentre la mitragliatrice ha caricatori che si innescano uno all’altro e teoricamente può sparare 500 colpi di seguito, tranne poi che si arroventa l’arma. Questo era il nostro armamento: 2 fucili mitragliatori e una pesante, però erano armi recuperate qui in valle che non era zona di guerra, eravamo armati dalla “debacle” dell’esercito italiano, quando le migliori armi di guerra avevano già fatto tre anni, erano già consumate, le canne erano già usurate, i colpi andavano un po’ dove volevano, per di più le armi lasciate qui non in zona di guerra erano tutte armi difettose e servivano soprattutto a essere montate e smontate per insegnare alle reclute come si monta e smonta un’arma, per cui la mitragliatrice pesante ha sparato un colpo e si è inceppata e questo è molto colpa nostra comunque è successo così; dei due mitragliatori sapevamo che uno sparava a raffica, l’altro invece sparava solo a colpo singolo abbastanza veloce, sempre meglio che il fucile ma non a raffica di 4-5-6-10 colpi di seguito; per cui il mitragliatore che funzionava bene “Avete un’idea di che cosa siano una mitragliatrice o un fucile mitragliatore?” è stato dato al nostro tiratore migliore, Geymot, che era un ragazzo definito molto in gamba, purtroppo morto nel settembre del 1944, perché catturato dai fascisti in una missione di collegamento e impiccato a Torino. Questo era il mitragliatore che funzionava e che ha sostenuto l’azione. Lì il Capitano Rivoir era presente. In azione, alla pesante c’era Pot e noi eravamo lungo la strada che dai Coppieri va verso i Chabriol; la mitragliatrice un po’ più sopra perché spara più lontano e gli uomini con i mitragliatori e con i moschetti sul bordo di questa strada che, essendo in discesa, permetteva di camminare curvi, oppure di strisciare a terra fuori dai colpi di chi sparava basso. La colonna di 4 camion significa 150/160 persone a bordo, noi eravamo 13, quelli veramente in azione, perché il capitano Rivoir aveva una pistola, ma non andava troppo lontano, e il sottoscritto faceva servizio sanitario che era anche molto utile, per cui fucilate non ne ho sparate, qualcuna sì, naturalmente volevo pur togliermi la voglia. Diciamo 13 effettivi, più un’arma automatica che non ha funzionato, una che funzionava male e un’altra che ha sostenuto tutta l’azione. Quando dalla nostra postazione si è vista arrivare la colonna – c’era un’autoblinda in testa, 4 camion e l’autoblinda in coda – si è aspettato che la prima autoblinda avesse fatto la seconda curva e quindi fosse in condizione di non spararci addosso perché era troppo in basso e non poteva alzare la mitragliatrice abbastanza in alto per colpirci, che il primo camion fosse proprio nella curva e il Capitano Rivoir ha dato l’ordine di aprire il fuoco: la pesante ha sparato un colpo e questo ha dato il segnale di intervenire, allora il mitragliatore di Geymot ha vuotato il primo camion. Si sono salvati in 3 (questo l’ho poi saputo molto tempo dopo a Torino quando facevo il servizio informazioni, ho incontrato uno dei fascisti che sono scampati dalla battaglia di Rio Cros, effettivamente hanno avuto molta paura, hanno visto centinaia di partigiani sulle montagne, armi che sparavano loro addosso da tutte le parti, comunque il primo camion è stato vuotato, il secondo era ancora a tiro e ha avuto delle perdite con il secondo mitragliatore e il terzo doveva essere fermato dalla mitragliatrice pesante ma non ha avuto perdite, il quarto era ancora dietro alla casa e non è stato toccato per niente, l’ultima autoblinda in coda naturalmente è venuta su, ma per nostra fortuna l’alzo era un po’ eccessivo, per cui ci poteva sparare contro ma non molto comodamente, e questo è stato un grosso vantaggio, però avevano un mortaio da 81 messo subito in funzione, 2 mitragliere da 20, un mucchio di armi, potete immaginare 130-140 armi contro 13 per cui, bloccato il primo camion, è rimasta lì l’autoblinda che era all’inizio e non aveva potuto tornare indietro e quindi è stata messa fuori combattimento, non se l’è sentita di venire a cercare una strada per arrivarci addosso di lato: non sapeva che cosa avrebbe trovato, bastava una piccola mina sulla strada o semplicemente una frana di pietre e rimaneva neutralizzato. Dopo i primi dieci minuti di fuoco, essenzialmente partigiano, c’è stata una risposta che è andata organizzandosi da parte della colonna che era sotto e le parti si sono rapidamente invertite: noi non abbiamo avuto altro da fare che rimanere ben acquattati in posti defilati, in modo da non farci beccare; di tanto in tanto uscire fuori, sparare 3-4 colpi, poi di nuovo tirarsi indietro. Quelli sparavano per un quarto d’ora. Così è passato il pomeriggio; dalle dieci del mattino, si è arrivati alle cinque e mezzo di sera e si è fatto buio. Il primo camion è rimasto lì con i morti dentro, ne hanno avuti una trentina, i feriti non sappiamo perché li hanno portati indietro, ma da quel che sappiamo da Torre Pellice sono stati più o meno altrettanti; noi abbiamo avuto due feriti leggeri che ho medicato abbastanza facilmente, senza nessun problema. Una scheggia solo di striscio nel braccio e una pallottola di mitragliatrice nel pettorale del ragazzo più ciccione che avevamo, lo chiamavamo ‘la signorina’, perché aveva dei muscoli pettorali abbastanza carini. Lo ha attraversato da parte a parte senza toccare le costole. L’abbiamo preso in giro per un bel po’… Quando alla sera, venuta la notte, temevano che noi potessimo infiltrarci tra di loro e far chissà che cosa, si sono ritirati a Torre Pellice. Noi non abbiamo osato muoverci, perché nelle nostre condizioni era un suicidio tentar di scendere giù bastava che si fosse fermato un gruppetto con un mitragliatore ed eravamo “fritti”, ma gli uomini del Villar, il gruppo Ventuno, sono scesi giù per vedere di recuperare qualche cosa; hanno trovato questo camion che funzionava ancora, a bordo un mortaio 81 e munizioni e poi hanno racimolato le armi dei morti che erano in terra, hanno caricato tutto e sono arrivati a Bobbio. Tirato giù il mortaio, hanno sparato due colpi quasi a caso contro la caserma, perché nessuno di noi sapeva usare il mortaio, se non che ci infili la bomba nella canna e poi aspetti che parta, ma non c’erano tabelle di tiro, quindi si sono avvicinati quasi sotto la caserma e hanno messo il mortaio più dritto possibile, sperando che la bomba non cascasse proprio sulla loro testa, poi hanno sparato due colpi, uno è andato sul tetto della caserma e quelli si sono arresi. Naturalmente il giorno dopo c’è stata una reazione: arrivati in forza fascisti e tedeschi da Torino e Pinerolo, noi non abbiamo avuto altro da fare che ritirarci subito sulle pendici del Vandalino e siamo stati tranquilli. Era un anno di poca neve. Molte case sono state bruciate non soltanto nella zona del combattimento, ma anche nell’Inverso, perché arrivava l’eco della nostra sparatoria e hanno creduto che ci fossero armi partigiane anche dall’altra parte. Tutta una serie di case lungo l’Inverso di Torre Pellice sono state bruciate nel rastrellamento dei giorni dopo e ostaggi sono stati presi a Torre Pellice: il parroco, il pastore, i professori del Collegio, il Sindaco… le persone più in vista per ottenere un cambio con i repubblichini e i fascisti di Bobbio, cambio che è stato concesso. Hanno preteso che si restituissero le armi, le abbiamo sabotate tutte, in modo che non potessero più sparare… Si toglie una molla… si dà una botta con il martello sull’otturatore del fucile… e avanti così. Le cose si sono calmate così. L’azione di Rio Cros è stata l’unica scatenata dai partigiani e finita con il successo totale, ma la nostra speranza di togliere i fascisti dalla Val Pellice non si è realizzata perché oltre i fascisti a Bobbio, li abbiamo avuti anche a Torre Pellice e a San Giovanni. Abbiamo dovuto convivere con loro, un po’ su e un po’ giù.

Domanda
Che ruolo aveva nel suo gruppo?

Davite
Ero registrato alla fine della guerra, sul tesserino partigiano, come ‘fuciliere’, come tutti gli altri… In realtà il mio compito era quello di un primo intervento sanitario fra il momento di un eventuale ferimento e la possibilità di contattare un medico o di far arrivare il ferito all’Ospedale Valdese di Torre Pellice, dove il Professor Pinardi, che era il primario di chirurgia degli Ospedali valdesi e del Civile di Pinerolo, avrebbe potuto intervenire. Il Professor Pinardi mi aveva fatto un corso accelerato, prima dell’8 settembre, all’ospedale per permettermi di cavarmela di fronte ad un primo intervento, senza voler fare cose straordinarie: cucire uno strappo, chiudere un’arteria sanguinante, dire delle buone parole ad un ferito… Il Professor Pinardi era un antifascista; conosceva mio padre ed erano amici, avevano qualche cosa a che fare con il partito repubblicano, allora proibito perché eravamo in monarchia; probabilmente erano legati alla Massoneria, che allora non era ancora deviata… Quando il gruppo GL della zona ha cominciato a pensare ad una Resistenza, il Professor Pinnardi, che mi conosceva bene, ha proposto a me e a mio padre di entrare nel gruppo. La cosa mi interessava: ero nella linea antifascista non per merito mio, ma perché linea della mia famiglia. Ho accettato e in luglio sono entrato nell’Ospedale di Torre, che lavorava molto perché gli ospedali di Torino erano in parte stati bombardati o sfollati. Si operava e io la prima volta sono svenuto quando ho sentito l’odore di una pancia aperta… Lungo per terra… Pian piano mi sono fatto le ossa: questo mi è servito. Ero conosciuto presso i partigiani con il nome di battaglia di ‘Dutur Gechiss’, che forse era una deformazione piemontese di Jackyll, il film apparso nel 1942 sugli schermi italiani e probabilmente i miei compagni che parlavano meglio il piemontese hanno fatto questa deformazione e sono conosciuto così da quelli che hanno combattuto con me… i pochi ‘vecchietti’ ancora in circolazione…

Domanda
Qual è la peggior paura che ha vissuto?

Davite
Non saprei. In battaglia non si ha tempo per aver paura. C’è troppo a cui pensare, troppo da fare. Da pensare a tirare via la pelle, senza farsela bucare troppo. Quando ci si ripensa dopo, allora sì… Forse il momento più brutto che ho vissuto è quando nell’inverno della fine 1944, inizi 1945… Abitavo dai miei nonni, vicino ai Coppieri, proprio sopra Rio Cros… (alla battaglia di Rio Cros, la mitragliatrice pesante era piazzata nell’orto di mia nonna…). Avevo il documento che diceva che ero esonerato in quanto studente in Teologia nella Chiesa Valdese. A un certo momento, la Repubblichina aveva omologato gli studenti valdesi a quelli cattolici, per cui eravamo considerati preti e quindi avevamo l’esonero dal servizio militare. Per questo mi avevano chiamato a Torino, perché era un esonero autentico. Le trenta volte che mi hanno fermato… telefonavano al Distretto, dove sapevano già a memoria e non dovevano nemmeno andare a guardare… Nel periodo in cui sono dovuto risalire in Valle, perché a Torino ero stato ‘bruciato’, c’era stata una forma di rastrellamento perché i partigiani avevano sparacchiato qualche colpo contro un camion di SS italiane che saliva a Bobbio. Sono arrivati nella cascinetta di mio nonno e io non ho potuto tagliare la corda, perché nel cortile sono arrivati loro prima che io me ne accorgessi e, quando ho sentito che salivano su, mi aspettavo che mi sparassero… Cercavano partigiani in giro e io avevo l’età giusta e quel momento era anche abbastanza teso, perciò non si facevano molti complimenti né da una parte, né dall’altra. Prima si sparava, poi si chiedeva chi fosse… Mi sono trovato davanti ad un ragazzotto tedesco, un alpenjäger, a distanza di pochi metri con il ‘machine pistol’ puntato e con il dito sul grilletto… Mi ha guardato un momento in faccia, ha girato la schiena e se ne è andato. E’ sceso ed ha detto che non c’era nessuno. Non ho mai saputo chi ringraziare, ma vi assicuro che ero duro come un pezzo di legno dalla paura: ero sicuro fosse la fine. Perché quel ragazzo tedesco abbia detto che non c’era nessuno, non lo so: probabilmente gli devo la pelle, perché se anche non mi avesse colpito, mi avrebbero mandato magari a Mauthausen… non sarebbe stata una bella villeggiatura…

Domanda
Come vivevate alla Sea?

Davite
Come tutti gli altri gruppi. C’è stato un grande scrittore che ha detto che la guerra è fatta al 95% di noia e al 5% di fifa: è stato vero anche per noi. La prima sede del gruppo della Sea era alla Tarva: la casa è tale e quale. Non è stata bruciata nei rastrellamenti. Era disabitata, quando l’abbiamo occupata alla fine di settembre del 1943; è identica, tranne le parti in legno, un poco marcite in 50 anni… Si era 15 persone e cosa si faceva? Poco! Si montava la guardia… ‘la grande barba’… Questo è stato uno dei nostri punti deboli, lo ammetto. Quando uno ha montato la guardia per 3 mesi di seguito, giorno e notte, e non ha mai visto niente di più pericoloso che una volpe attraversare la strada, ad un certo punto abbassa il livello di attenzione… Se ne va cinque minuti prima del cambio, entra perché fa troppo freddo e viene a scaldarsi… e così abbiamo perso degli uomini alla Vittoria, nell’agosto del 1944, così è morto il fratello dell’avvocato Serafino vicino a Pinerolo, così è morto Gay all’alpeggio del Ghinivert in Val Germanasca, così sono successi tanti guai partigiani. Un gruppo di quindici persone che si conoscono e che si danno tutti del tu, in cui non c’è il Signor Ufficiale o storie di questo genere, in cui non c’è una disciplina imposta dall’alto, che ti piaccia o no nel bene o nel male, ma è un’autodisciplina, in cui ‘l’auto’ alla lunga se ne va perché si è troppo amici… E’ stato il punto debole della Resistenza un po’ dappertutto; i miei amici che hanno fatto la Resistenza da altre parti sono tutti concordi nel dire questo. Il gruppo della Sea come gli altri gruppi, il Bagnau come i Garibaldini di Rorà, ci si alzava al mattino con una ‘specie’ di sveglia: il primo che si alzava ad un’ora decente svegliava gli altri e a turno si facevano i lavori di pulizia e di manutenzione; c’era qualcuno un po’ più pratico di altri che era stato nominato cuoco e poi si faceva un po’ d’esercizio alle armi; ma le munizioni le avevamo contate con il contagocce. Inoltre sparare su per la Sea voleva dire essere sentiti da Torre Pellice, e non era il caso di farci individuare o anche di dare il segno di una presenza partigiana troppo notevole. Oltre a insegnare ai nuovi arrivati come si usa un moschetto, come si monta e smonta l’otturatore, come si monta e smonta il fucile mitragliatore o una mitragliatrice, non c’era molto da fare. Di tanto in tanto si facevano delle esercitazioni: si andava in giro armi e bagagli e si pensava di montare un’imboscata qui, di montare un punto di resistenza da un’altra parte… quel minimo di pratica militare che nessuno di noi aveva, pochi l’avevamo teoricamente.. Sapevamo proprio il minimo: se io piazzo la mia mitragliatrice qui, l’altra metà del mio gruppo non va dove arrivano i colpi della mitragliatrice, ecco… All’inizio abbiamo dovuto imparare anche questo ed è logico. Questa era un po’ la nostra vita: si stava lì, si cantava, si raccontavano cose; chi era un po’ più preparato politicamente, parlava di politica, di antifascismo, di progetti per l’organizzazione della futura Repubblica Italiana e così via. Un po’ di preparazione, perché molti non ne avevano proprio nessuna: erano dei ragazzi che istintivamente avevano detto: ’Andiamo con i partigiani e non con i fascisti’, senza un ragionamento profondo: erano dei militari scappati all’8 settembre e tra l’altro erano alcuni dei migliori. Giaymot era così, un calabrese che si chiamava Arca, che è stato uno dei nostri migliori uomini, era anche un bersagliere che aveva tagliato la corda all’8 settembre per non essere beccato dai tedeschi e così via. C’era un po’ di lavoro di formazione politica, sociale, civile, storica e culturale. Un pochino… Due di noi arrivavamo dal liceo… Alla sera non si cantava e non si raccontavano barzellette continuamente, ma si faceva anche un lavoro di questo genere. Di tanto in tanto, quando erano annunciati i rastrellamenti, c’erano le fughe in montagna per non essere individuati, perché essere individuati in un rastrellamento significava essere eliminati: non c’era scampo.

Domanda
Quando un ragazzo decideva di diventare un partigiano, lo facevate entrare in gruppo così o c’era una specie di reclutamento per vedere se era adatto?

Davite
No, ma normalmente c’era una limitata trafila prima. Uno non diceva: ‘Adesso vado a fare il partigiano in montagna’; magari aveva dei parenti che erano già su, se era un ragazzo qui della zona; aveva degli amici e dei parenti che erano già partigiani, che conosceva, allora diceva: ‘Ho ricevuto la cartolina precetto, non mi voglio presentare, mi prendete?’ Aveva contatto con qualcuno che conosceva già e si sapeva più o meno che tipo fosse, se era affidabile o meno. Qualcuno è anche stato rifiutato o perché si sapeva che fisicamente non ce l’avrebbe fatta e farsi beccare significava anche rischiare di raccontare troppo sotto tortura… Chi era sicuro di resistere nel momento in cui ti strappavano le unghie? … E quindi, bisognava fare il conto con quello. Però il grosso veniva attraverso una trafila più o meno familiare di amici o conoscenti, e quando si arrivava su si sapeva più o meno tutto e ci si conosceva.

Domanda
Potesse tornare indietro rifarebbe alcune cose che ha fatto allora, come sparare a qualcuno?

Davite
E’ una domanda alla quale non è facile rispondere: intanto non si può tornare indietro e se tornassi indietro tornerei con l’esperienza di adesso e le scelte sarebbero le stesse con meno ingenuità, probabilmente, sparare contro a sangue freddo… questo è un problema che molti di noi si sono posti e, ad un certo momento, quando io facevo certi servizi li ho fatti disarmato, però a un certo momento la guerra è la guerra e non si fa della poesia. Se io sono in un gruppo combattente sia che spari materialmente, sia che porga il caricatore a chi spara o sia che faccia un servizio sanitario, in quel momento sono indaffarato a cucire una pancia piuttosto che a scucirla agli altri…, ma la responsabilità è la stessa. Non andiamo a nasconderci dietro al dito! Per molti è stato questo: o passi da una parte o passi dall’altra; siamo in guerra. Non c’è scelta, non c’è una terza strada possibile. O passo con quelli che torturano e ammazzano e mandano nei campi di sterminio e fanno fuori gli ebrei oppure, se dico di no a questo, devo passare dall’altra parte: non posso stare in mezzo e dire che sono neutrale come la Svizzera. Per cui, se ad un certo momento, quando c’è da sparare, si spara.. non a cuor leggero, non alla Rambo, che è una figura che tra l’altro non esiste, è di pura fantasia e di cattivo gusto… ma si spara. Ad un certo momento con tutti i problemi che c’erano… la situazione era quella… e non si esce di lì.

Domanda
Questa vicenda ha influenzato la sua vita, ha continuato a pensare in positivo o in negativo?

Davite
Diciamo, non penso di essere un “ex combattente” tra virgolette, uno di quelli che tornano a casa e pensano soltanto a quella faccenda lì: la vita fornisce altre cose a cui pensare. La situazione è dialettica; c’è del positivo e del negativo… Non è tutto bello, tutto positivo… Alcune cose negative ve le ho dette, ce ne sono e ce ne sarebbero anche altre da raccontare e che hanno pesato… Direi che essenzialmente quello ha maturato la persona: chi ne è uscito si è trovato con qualche idea in più e, soprattutto, con un senso di responsabilità che va portata e che un certo momento non si può eludere, quindi tanto vale accettarla e prendere per quello che è e quindi questa è forse la cosa più positiva che abbiamo tirato fuori da questa esperienza.

Domanda
Quanto mancavano la mamma, la ragazza, la vita normale vivendo in una cascina in montagna per mesi e mesi?

Davite
A 18 anni è un’epoca in cui la mamma non manca molto, mancherà magari più tardi, ma a quell’età lì la famiglia non manca molto: si deve conquistare lo spazio, per voi è più rapido e anticipato di un anno o due… io avevo 16 anni quando è cominciata la guerra; ero a Torino… i bombardamenti e tutto il resto… sono stati anni vissuti in modo molto diverso da quello che voi fortunati vivete adesso, ma c’è un’età in cui la famiglia non manca, perché è l’età in cui bisogna conquistarsi uno spazio fuori, quale che sia il travaglio psicologico di questo è un altro paio di maniche…dunque… la famiglia non è che mancasse particolarmente; la ragazza quella un po’ di più naturalmente: è chiaro che avevo una ragazza a Torino, e va bene, pazienza, però diciamo che la situazione in cui vivevamo nella seconda parte del ’43 era talmente drammatica e talmente tragica ormai in Italia che un certo senso di responsabilità veniva fuori e quindi una scelta di questo genere compensava anche, almeno parzialmente, una mancanza psicologica e affettiva che poteva esserci.

Domanda
Quando sparava non pensava che fosse un ragazzo come lei, con i suoi stessi sogni?

Davite
No, se avessi pensato a quello non avrei sparato in battaglia …quello che si può pensare magari prima fino ad un certo punto… perché guardate se c’è una situazione che sia capace di disumanizzare la gente è la guerra.

Domanda
Però quel ragazzo che aveva detto che non era lassù, che non c’era nessuno…

Davite
Ma, io ho anche medicato, facendo tutto quello che sapevo e ancora di più un ferito tedesco che era rimasto dalle nostre parti e quando è andato via mi ha perfino detto grazie, queste sono altre questioni…ma dicevo la guerra disumanizza veramente, la guerra bisogna averla vissuta per capirla: quando la tua pelle vale poco più di niente, quella degli altri non vale più della tua. Il combattimento scatena rapidamente quella che si chiama la pazzia di combattimento: sono soltanto istinti animali per fortuna, non c’è più ragionamento se non proprio il minimo. Si tratta di muoversi, di spostarsi, di capire come arrivano i colpi, come li puoi tirare tu… L’istinto di sopravvivenza è scatenato al massimo, ma dopo ci si sente completamente svuotati, perché è così che si sopravvive… Non c’è idea morale o non morale… in quel momento lì, non si pensa né alla morosa, né alla mamma, né al nemico, né a niente… In quel momento lì si combatte, non solo ma la cosa che mi ha scombussolato di più è stato che proprio nella mia situazione del tipo che sparavo o non sparavo normalmente come a Rio Cros e in altre occasioni alla fine dei combattimenti per la liberazione di Torre Pellice e così al 25 aprile. All’inizio naturalmente non avevo tempo a sparare se c’era qualcuno che aveva un problema e che aveva racimolato un pezzo di ferro volante, avevo altro da fare e allora non avevo tempo per sparare. La pazzia del combattimento si scatena molto rapidamente e la cosa che mi ha veramente scombussolato di più è che i momenti in cui ho avuto più voglia di sparare non è stato quando gli altri mi sparavano addosso, lì avevo voglia di tener la testa bassa, ma quando gli altri scappavano e non era più necessario sparare tanto il pericolo era via. Quando si sparava proprio per il gusto di sparare e questo veramente mi ha scombussolato da matti eppure è così, è stato vero per me come per tutti gli altri. La guerra è veramente una porcheria. Non credete a quelle mitizzazioni di guerra che si fanno, l’eroismo… la guerra è una disumanizzazione totale, in cui ci sono i momenti, ci sono gli eroismi naturalmente, ma se ne esce distrutti.

Domanda
Quali erano i rapporti tra il vostro gruppo della Sea e gli altri gruppi di valle? Come li mantenevate?

Davite
C’era un comando di Valle. Prima di tutto ogni valle era organizzata in un modo più o meno autonomo o quasi con un collegamento con il Comitato di Liberazione “…la guerra disumanizza veramente, la guerra bisogna averla vissuta per capirla…” Nazionale di Torino che organizzava per esempio la distribuzione degli aiuti finanziari, perché bisognava pur mangiare e non si andava a rubare nelle cascine, si comperava …Agnelli ha mandato dei soldi, anche se non l’ha mai detto, lui e gli altri.. Ivrea.. e tanti altri hanno contribuito ed era su base regionale il Comitato di Liberazione di Torino che distribuiva le somme più grosse; e di questo non ne so niente perché non me ne sono mai occupato, erano quei partigiani non combattenti che erano a Torre Pellice o a Luserna che facevano questo lavoro di suddivisione e amministrazione per cui il comando di Valle qui si occupava di noi, del gruppo di Chabriol, del gruppo di Prearo a Villar e Bobbio; si facevano delle incursioni in pianura quando i tedeschi facevano rastrellamenti di bestiame, o la consegna obbligatoria di bestiame lo riunivano a Cavour, noi lo lasciavamo andare e la prima notte si andava giù a Cavour con mitragliatrici sul camion, si diceva … signori dateci un po’ di bestiame, restituiteci il bestiame…, normalmente erano fascisti che facevano la guardia e non c’era bisogno di consumare tante pallottole per convincerli a tagliar la corda: una parte del bestiame era restituita alla popolazione, la gente riconosceva la propria mucca, qualche bestia, originaria della pianura, naturalmente la tenevamo perché dovevamo pur mangiare anche noi. …Rorà, Montoso e in quella zona erano Garibaldini; erano quindi organizzati dal partito comunista ma questa era una questione, come dire, pratica non è che di là ci fossero più comunisti che di qua, era una zona dove c’era un partito che organizzava la Resistenza, nelle altre zone ce n’era un altro. In Val Chisone, Germanasca erano dei gruppi autonomi con Serafino, ma questo in realtà non faceva differenza. Dopo Rio Cros siamo andati per tre o quattro giorni a Rorà per evitare il rastrellamento di qua, quando c’è stato il disastro di Montoso, i Garibaldini di Montoso sono venuti da noi alla Sea, ma non c’erano in realtà dei problemi. Ci sono stati quando a un certo momento in questa situazione che descrivevo all’inizio non rigidamente strutturata hanno potuto esserci dei conflitti di autorità fra comandanti. Questo è anche successo, è inutile negarlo, ed è stato la fine del gruppo della Sea. Il conflitto tra Rivoir e Prearo ha portato al disfacimento del gruppo di Villar che è poi stato riorganizzato con quello di Chabriol, lì è andato bene, il gruppo della Sea è in parte passato con il Chabriol in parte passato in Val Germanasca e come gruppo è sparito nell’estate, agosto-settembre ’44. Peccato, perché era un bel gruppo. Io allora ero a Torino e non vi posso dire i dettagli della faccenda, perché non li ho vissuti in prima persona. Peccato, era un gruppo che mi piaceva e al quale ero parecchio legato.

Domanda
I nomi dei gruppi erano scelti in base a che cosa?

Davite
Localmente qui era il Partito d’Azione che ha organizzato la Resistenza. In Val Pellice è stata fatta dal gruppo del Partito d’Azione, mentre di là c’erano gli ebrei scappati da Torino e ospitati a Rorà: questa è una pagina che varrebbe la pena di conoscere una volta o l’altra. C’erano comunisti.. gli ebrei erano più facilmente comunisti che militanti del Partito d’Azione e quella zona è stata organizzata tramite questi contatti e altri comunisti di Torino. E’ stato organizzato dal partito comunista; a Torino, il primo CLN ha un po’ suddiviso a seconda della presenza di certe persone, di certi gruppi, di certi partiti clandestini in una zona piuttosto che in un’altra. Come in Val Chisone: la presenza di un uomo come il tenente Serafino, attualmente l’avvocato Serafino di Pinerolo, è stata sufficiente per organizzare in quel modo lì tutta la Val Chisone, perché c’è stato un uomo capace, in gamba intorno a cui si sono coagulate tutte le altre iniziative. Nel complesso la Resistenza nel Piemonte è stata un fatto positivo, anche se non sono mancati i difetti, molte cose sono criticabili si sono fatti degli errori anche pesanti, pagati cari perché allora si pagavano cari, come sempre in situazioni di questo genere. Direi che nel complesso è stata una cosa molto positiva.. purtroppo poi è stato tutto insabbiato all’Italiana negli anni ’46-’47… ma questo è un altro discorso.

Domanda
Quali erano i problemi che avevate voi partigiani della Valle con i lanci delle Missioni alleate?

Davite
Di questo non ne so tanto, perché i lanci sono avvenuti quando io ero a Torino. I lanci sono stati organizzati dall’ingegner Jervis, fucilato nell’agosto del ’44 a Villar Pellice. Sulla piazza di Villar, un funzionario dell’Olivetti , madre inglese, ‘barbetto’… Una cosa che non vi ho detto: mentre altre zone sono state organizzate dal partito comunista o da gruppi autonomi, uno dei motivi della presenza del Partito d’Azione e di Giustizia e Libertà in Val Pellice è che in Val Pellice risiedevano persone che avevano dei collegamenti con alcuni valdesi torinesi e milanesi che sono all’origine del Partito d’Azione; mentre il gruppo ebreo era favorevole al PCI, il ‘mondo barbetto’ era per il Partito d’Azione e nella nascita e nell’organizzazione del Partito d’Azione 1/3 era valdese, gli altri 2/3 erano laici, qualche presenza cattolica ma non molta.

Domanda
Che cosa l’ha spinta a diventare pastore valdese?

Davite
E’ difficile dire, perché non è una decisione che sia venuta così…sulla strada di Damasco… ho pensato di fare il medico poi, ad un certo momento,… una folgorazione, e ho fatto il pastore valdese… E’ una decisione che si è venuta a formare pian pianino, da quando ero ragazzo in alternativa, un po’ pendendo sul versante teologico e un po’ pendendo sul versante medico. Nella chiesa valdese di Torino di cui ero membro, perché i miei abitavano giù, eravamo un gruppo di 4-5 persone che avevamo tutti interessi teologici e medici: quattro hanno fatto i medici discutendo volentieri di teologia, l’altro ha fatto il pastore finendo presidente degli Ospedali valdesi di Torre e Pomaretto; sono state delle strade parallele con un’accentuazione più di qua che di là. Ma non posso dire che ci sia stato un momento in cui la decisione è avvenuta: è maturata pian pianino. Alla fine della Resistenza, quello che è stato lo spartiacque è stato quello fra medico e pastore: di medici ce n’erano già tanti,… c’era forse più bisogno di pastori…

[fine]