Giancarlo Caselli: Quale giustizia? In nome del popolo o del potere?
Torre Pellice 13 settembre 2024, Galleria Scroppo, ore 17,30.

Conferenza tenuta nell’ambito delle iniziative promosse dal Comitato Val Pellice per la difesa dei valori della Resistenza e della Costituzione repubblicana in occasione dell’81° anniversario dell’8 Settembre.

(Trascritto da TurboScribe.ai e revisionato da anpivalpellice.it a partire da una registrazione di bassa qualità; ci scusiamo col Dr Caselli per le omissioni ed eventuali seppure improbabili imprecisioni.)

 

Grazie per questo invito.

Io sono, nel senso se si vuole nobile del termine, un burocrate e quindi il mio intervento parte un po’ da lontano.

In nome del popolo o del potere? il titolo del nostro incontro è un tema che secondo me ci porta prima di tutto a parlare, è il problema fondamentale ancora oggi, soprattutto oggi e temo anche domani, a parlare di Costituzione. Come nasce la Costituzione? Lo sappiamo, diciamolo ancora una volta.

C’era una volta un signore che amava indossare, soprattutto fare indossare agli altri, una divisa, di solito confezionata in orbace nero; questo signore ogni tanto si affacciava al balcone, o si esibiva una trebbiatura del grano [mostrando] i muscoli, induriva la mascella… Voleva comandare tutto da solo, di fatto comandava tutto da solo.

Questo signore ha comandato per una ventina di anni e alla fine ha portato il nostro Paese alla rovina culminata nella tragedia della seconda guerra mondiale. Dopo questi disastri, gli italiani si sono detti che bisognava evitare, in futuro, che ci potesse ancora essere un uomo solo al comando.

E allora ecco, 556 eletti dal popolo, uomini e donne di orientamento molto diverso tra loro ma tutti egualmente liberi, si riuniscono in un’assemblea costituente e lavorano sodo per 18 mesi insieme, e alla fine insieme elaborano, raggiungendo un accordo di altissimo dettaglio, una legge base fondamentale che è la nostra Costituzione, la Costituzione del ‘48.

La Costituzione, lo sappiamo, lo sapete, è stata scritta da uomini e donne che la pensavano in maniera completamente, tutt’affatto diversa gli uni rispetto agli altri. Socialisti, comunisti, democristiani, liberali, azionisti, repubblicani, monarchici, cattolici, laici, credenti e non credenti, c’era proprio di tutto.

Citiamo Calamandrei, uno dei padri costituenti, il quale dice, ci fa notare che sotto questa Costituzione ci sono tre firme che sono un simbolo: De Nicola, Terracini e De Gasperi. Tre nomi, tre idee, tre concezioni che costituiscono le correnti più importanti del nostro paese.

Cosa vuol dire questo? Vuol dire che intorno a questa legge, a questo statuto, la Costituzione, s’è formato il consenso dell’intero popolo italiano: intero, il consenso di tutti.

Questa è la forza, questo è il valore della nostra Costituzione. Non è l’imposizione di qualcuno sugli altri a colpi di maggioranza; è il consenso dell’intero popolo italiano che si è formato intorno a questo documento, il consenso di tutti è la vera chiave per leggere la Costituzione.

Non si può parlare della Costituzione senza ricordare la lotta partigiana e la Resistenza.

Alcune frasi di Calamandrei che tutti conoscete, che tutti conosciamo. Quanto sangue, quanto dolore per arrivare a questa Costituzione. Dietro ogni articolo voi dovete vedere giovani caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, in Africa, per le nostre strade, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta.

La Costituzione si può leggere come un libro di storia, nel senso che enuncia principi specularmente opposti a quelli dell’istituzione preesistente, della dittatura, principi che la democrazia vuole ribaltare. Ce ne sono parecchi che potrebbero essere citati, mi limito a citarne uno, oggi di speciale attualità: l’articolo 11, che ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli, è anche una evidente reazione alle guerre coloniali e alle immani tragedie della Seconda Guerra Mondiale.

Ma la Costituzione è anche, secondo me, un libro di storia e anche, e forse soprattutto, un documento che ha un valore educativo, una forza propositiva rivolta al futuro di eccezionale importanza, di eccezionale forza e quindi valenza, oltre che come un libro di storia, anche come un insieme di linee di guida dettate per la Costituzione di un nuovo ordinamento.

Così, in questo modo, l’obiettivo di realizzare libertà e uguaglianza è l’obiettivo fondamentale della nostra Costituzione, entra nell’orizzonte del diritto e dei giudici. Pensiamo soprattutto all’articolo 3, il capoverso della Costituzione.

“È compito…”. È! Non ci sono spazi per considerazioni diverse dall’obbligo di fare. È, è compito, è compito sempre, anche se sono momenti difficili, anche se le difficoltà sono tante. Non si può dire, è compito ma aspettiamo momenti migliori, è compito ma lo faremo quando le possibilità saranno maggiori. È compito, è: è compito della Repubblic. rimuovere lo stato di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impedisce il pieno sviluppo della persona umana.

Si vede subito che in questo modo il diritto non è più soltanto elemento di cristallizzazione, una pura conferma e tutela dell’esistente, di quello che abbiamo già. Il diritto viene proiettato nella dimensione del futuro, nella dimensione del cambiamento. Il suo obiettivo è una democrazia emancipante, cioè una democrazia che favorisce, che favorisca percorsi di emancipazione. E lì cresce.

Una democrazia che comporti in sostanza non soltanto il diritto a dover andare a votare, ma anche il diritto a una qualità della vita che valga la pena di essere vissuta. Cioè il diritto a un reddito decoroso e a una vita civile per tutti. Anche per chi è ammalato, anche per chi è disoccupato o precario, anche per chi è anziano, anche per la straniero che vuole vivere onestamente rispettando le regole del nostro paese.

[…]

Il punto di partenza di questa riflessione è che la Costituzione repubblicana vigente, oggi ancora vigente, disegna una democrazia pluralista basata sul primato dei diritti uguali per tutti e sull’a separazione dei poteri, legislativo, esecutivo, giudiziario, senza supremazia dell’uno sugli altri ma con un regime di bilanciamento e controllo. A questa concezione di democrazia se ne vorrebbe, se ne vuole sostituire un’altra basata sul primato della politica, meglio, della maggioranza politica del momento, e non più sul primato dei diritti.

Ma facciamo attenzione.

Se è vero che in democrazia la sovranità viene dal popolo, per cui chi vince le elezioni, chi ha più consenso, chi ha la maggioranza ha il diritto, il dovere, di operare la scelta politica che vuole; è altrettanto vero, altrettanto, forse ancora più vero, che ogni potere democratico incontra, non può non incontrare, dei limiti, dei limiti prestabiliti. Limiti che presidiano la sfera della dignità e dei diritti di tutti. Sfera sottratta al potere della maggioranza e tutelata da custodi: una stampa libera e una magistratura indipendente, custodi che sono estranei al processo elettorale ma non sono estranei alla democrazia, ne sono parte integrante.

Questa necessità dei limiti che la nostra Costituzione afferma fin dal primo articolo, fin dall’inizio, è fondamentale in una democrazia vera, autentica, che sia sinceramente tale; altrimenti, lo ha già detto, insegnato, qualche secolo fa un filosofo, Alexis de Tocqueville, altrimenti è sempre in agguato quella che Tocqueville chiama la tirannide della maggioranza. Un limite assolutamente invalidabile, in particolare, perché non ci sia, non si realizzi questa tirannide della maggioranza, è rappresentato dal principio di legalità: tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge e nessuno può sottrarsi all’osservanza della legge.

La vera democrazia, dico delle cose che sapete meglio di me, scusatemi, ma di qui dobbiamo partire, la vera democrazia deve garantire, non può non garantire, spazi anche alla minoranza, che siano però spazi effettivi, perché se questi spazi non sono effettivi, se la maggioranza che ha avuto più consenso si prende tutto, allora l’alternanza, che è la quintessenza, è il DNA della democrazia, l’alternanza viene ridotta a una finzione, a un simulacro, e la democrazia cambia qualità se non addirittura deraglia.

La concretezza, la realtà di questi spazi che devono essere riservati alla minoranza, alle minoranze, la concretezza e la realtà degli spazi dipende da tanti fattori. I principali sono l’effettività del controllo sociale e l’effettività del controllo di legalità.

Il controllo sociale, consentitevi di ricordarlo, significa informazione pluralistica e libera. Il controllo della legalità significa magistratura autonoma e indipendente.

Perché se io riduco il pluralismo e l’indipendenza dell’informazione, il delegare, il vergognoso delegare, […] è inevitabile, è scontato.

Quanto alla magistratura..: sono sempre dietro l’angolo riforme che riguardano il Consiglio Superiore della Magistratura, il principio di obbligatorietà dell’azione penale, i rapporti fra pubblico ministero e polizia giudiziaria, l’assetto nazionale di carriera, e tutte queste sono riforme che in un modo o nell’altro intaccano l’indipendenza della magistratura, riducono questo potere, questa indipendenza.

Ma ridurre l’indipendenza della magistratura, in particolare del Pubblico Ministero, significa che per legge […] c’è qualcuno, il potere esecutivo, il governo che può dare direttive, ordini, o quantomeno orientamenti precisi. Però attenzione, se la magistratura non è più indipendente, o è meno indipendente di [quanto lo sia] la nostra magistratura oggi […], se la magistratura non è più indipendente, o lo è di meno, la prospettiva, la speranza che la legge possa essere davvero almeno tendenzialmente uguale per tutti, svanisce. Per cui, se si riduce l’indipendenza della magistratura, cambia la qualità della nostra democrazia, al limite la democrazia può svanire.

Una democrazia è piena, o almeno ha prospettive di pienezza, soltanto se i cittadini possono essere, hanno la speranza di essere, la possibilità di essere, anche se non sempre questo accade realmente, uguali di fronte alla legge.

Allora, cominciando a tirare le fila, la posta in gioco è questa. È meglio il tipo di democrazia voluta dalla nostra Costituzione, fondato sul principio dei diritti uguali per tutti, oppure quello fondato sul primato della politica, anzi della maggioranza politica contingente? È meglio il primo, il modello attualmente vigente, o quello che si sta cercando di sostituire? Quale dei due modelli conviene di più a noi cittadini? […] Il problema è tutto qua: ci conviene di più il tipo, il modello di democrazia oggi scritto nella Costituzione vigente, oppure ha qualche vantaggio in più il modello di democrazia, chiamiamola ancora democrazia che si vorrebbe sostituire? Vorrei chiudere citando ancora Calamandrei. La Costituzione non è una macchina che va avanti da sola, perché si muova, questa macchina, la Costituzione, dobbiamo ogni giorno metterci dentro del combustibile, cioè impegno e responsabilità. Per questo, dice Calamandrei, una delle peggiori offese che si possono fare alla Costituzione è l’indifferenza alla politica.

L’indifferenza, lo sapete, lo sappiamo, lo constatiamo, lo constatiamo che cresce.

In verità il popolo italiano non va a votare, non va più a votare; chi governa ha un consenso, certo, ma un consenso che non corrisponde alla maggioranza del paese, anzi è una minoranza che esprime questo consenso […]. Cresce l’indifferenza, cresce l’astensionismo e conseguentemente il consenso è maggioritario ma non ha maggioranza, per così dire, relativa. Dice però Calamandrei che una delle peggiori offese che si possono fare alla Costituzione è l’indifferenza alla politica.
In realtà lui dice indifferentismo, è un linguaggio un po’ d’altri tempi, ma [il senso] è lo stesso, l’indifferenza alla politica. Una indifferenza che ci porta a dire o a pensare, anche solo, che la politica è una cosa brutta.

Calamandrei dice: questo discorso mi fa venire in mente un apologo, una specie di parabola.

Due migranti, due contadini attraversano l’oceano subito… Tra l’altro: siamo un popolo di migranti, io sono nato da una donna nata in Argentina, ho i miei anni, quindi non è una cosa recente […] Comunque ecco l’apologo, la parabola di Calamandrei.

Di questi due contadini, uno dorme nella stiva, l’altro sul ponte. E sul ponte, quando c’è una terribile burrasca, onde altissime, il contadino, terrorizzato, domanda al marinaio se c’è pericolo. E il marinaio gli risponde, se continua così mezz’ora, non di più, il bastimento affonda.

Allora il contadino corre nella stiva, vede il compagno e gli grida Beppe, Beppe, se continua questo mare il bastimento affonda. Ma Beppe gli risponde: che me ne importa? Non è mica mio il bastimento. Questo, concludo con Calamandrei, è l’indifferentismo, l’indifferenza alla politica.

La vita è bella, viviamo in libertà e dobbiamo fare tante altre cose piuttosto che interessarci alla politica, che non è neanche una bella cosa. Sono tutti giovani, tutti i giovani pensano in questo modo.

Però, ecco come concludo con Calamandrei: attenzione, la libertà è come l’aria, ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di oppressione che gli uomini della mia generazione, dico ancora con Calamandrei, hanno sentito per vent’anni e che auguro ai giovani di questi tempi di non sentire mai.

E questo è l’augurio che dobbiamo farci vicendevolmente di questi tempi.

Adesso, sullo specifico della magistratura […].

La separazione delle carriere è uno dei tre cavalli di battaglia dell’attuale governo: premierato, autonomia differenziata e separazione delle carriere. Anzi, è possibile che la separazione delle carriere venga prima dell’altre due. Le altre due hanno un percorso lungo, sono più tormentate, la separazione delle carriere è una legge costituzionale ma molto più semplice delle altre.

Che cos’è?

Innanzitutto, distinguiamo la separazione delle carriere dalla separazione delle funzioni perché molte volte si fa una confusione.

La separazione delle funzioni vuol dire che il pubblico ministero non può di punto in bianco diventare giudice nello stesso Tribunale e viceversa. Chi fa il pubblico ministero deve restare pubblico ministero, se vuole cambiare lo farà rispettando certe regole. Chi fa il giudice rimane giudice e non può essere pubblico ministero. In altre parole, se io sono pubblico ministero a Torino, non posso il giorno dopo o la settimana dopo fare il giudice sempre a Torino.

Le funzioni devono essere separate, e così sono! Il pubblico ministero che vuole diventare giudice o il giudice che vuole diventare pubblico ministero oggi per legge deve cambiare regione. E praticamente non lo fa nessuno.

Il numero di magistrati che passa dal pubblico ministero alla magistratura giudicante – oggi la legge lo consente ma a determinate condizioni, soprattutto il cambiamento di regione – è solo l’un per cento, l’un per mille, non sono statisticamente un problema. Il pubblico ministero che nel suo tribunale, di punto in bianco si mette a fare il giudice o viceversa, non esiste. E’ uno spauracchio che viene evocato, ma su niente, è pura e semplice propaganda.

La separazione delle funzioni [che è in discussione] invece è un’altra cosa.

Chi vuole la separazione delle funzioni tra pubblico ministero, pubblici accusatori e giudici, magistratura giudicante, come la giustifica? Come spiega questa legge?

Dico una banalità, volo basso, ma è per spiegarci.

Pubblici ministeri e giudici, magistrati giudicanti, in quanto non separati, in quanto collegati, [si dice] sono pappa e ciccia, sono molto amici, si raccontano le cose l’uno con l’altro, prendono il caffè assieme. Questo è l’argomento terra-terra, l’argomento principe: prendono il caffè assieme quindi combinano la cosa. Si vuole la separazione delle carriere perché se l’accusatore se la fa con il giudicante, il giudicante non è più libero e indipendente, mentre io, l’autore, il separatore delle carriere, voglio un magistrato giudicante che giudichi con la sua testa, non in qualche modo condizionato dal fatto che prende il caffè assieme dalla pubblica accusa.

L’obiettivo della legge è chiaro: due concorsi, non più uno solo; due consigli della magistratura, non più uno solo; due carriere separate. Due magistrature diverse, profondamente diverse tra loro, per quanto riguarda il reclutamemto, la gestione a livello di consiglio superiore e il cammino da percorrere poi fino al momento della pensione.

Dico subito una cosa che di solito non dice nessuno o quasi nessuno, che però mi sembra molto importante, oso dire persino decisiva. Se il problema è separare chi giudica da coloro che potrebbero condizionare il suo giudizio, allora, se vogliamo essere coerenti[…] dovremmo avere non due concorsi, non due carriere, ma quattro o cinque carriere: pubblico ministero e giudici, e poi giudici di primo grado e di secondo grado, giudici di secondo grado e giudici della Cassazione. Perché se i giudici sono colleghi che prendono il caffè insieme, e succede, allora è chiaro che i giudici dell’appello, ragionando come chi vuole la separazione delle carriere, devono essere liberi, indipendenti, autonomidai giudici di primo grado. Ma questo non lo chiede nessuno, anche se sarebbe logico, anche se sarebbe coerente[…]

I magistrati sono assolutamente contrari alla separazione delle carriere. Perché senza separazione la giustizia funziona meglio e perché la giustizia ha speranze, prospettive concrete di funzionare meglio. Perché senza separazione, i magistrati hanno la stessa cultura della giustizia, lo stesso rispetto delle regole, concorrenza di tutti di fronte alle regole.

Se il pubblico ministero viene staccato dalla magistratura giudicante con la separazione delle carriere, il pubblico ministero viene staccato anche dalla cultura della giustizia. Cioè, portato indeterminatamente, indiscutibilmente a ragionare in maniera diversa, in una maniera che è tipica, con tutto rispetto – se c’è uno che rispetta la polizia sono io – che è tipica della polizia, e la logica della polizia, la cultura della polizia è diversa da quella del magistrato.

Separando il magistrato dalla cultura della giustizia, che rimarrebbe esclusiva del giudicante, il magistrato entra in un’altra sfera culturale, che è tendenzialmente, che è sostanzialmente quella della polizia.

Ripeto, con tutto rispetto per la polizia, la cultura della polizia è cosa diversa da quella del magistrato.

E allora, c’è il rischio che alcune cose che oggi il magistrato del pubblico ministero persegue, domani non le persegua più, è la verità pura e semplice. Basta esaminare l’ordinamento di qualunque paese del mondo che abbia la separazione delle carriere. Dove c’è la separazione il pubblico ministero riceve ordini e direttive dal potere esecutivo, dal governo. Il governo può per esempio dire al pubblico ministero fai questo e non fare quello, fine dell’indipendenza dalla magistratura, fine della prospettiva, anche solo della speranza che la legge possa per voi essere davvero uguale per tutti.

[…]

Guardate, le cose stanno proprio così. Un caso personale. Quando ero procuratore di Palermo, i colleghi di Vienna, la procura anticorruzione di Vienna, mi invitarono ad un debattito, ad un convegno, ci vado e li trovo diciamo molti euforici, molto molto euforici: stavano brindando un bicchiere dopo l’altro ad una novità legislativa per loro rivoluzionaria che era un mutamento di qualità del loro modo di essere giudici rispetto al potere esecutivo.

E mi hanno spiegato che loro hanno una separazione delle carriere che consente ancora al governo di dare ordini al pubblico ministerio. Ma gli ordini, ecco la novità, ecco ciò che li rendeva felici, che li portava a brindare, gli ordini dovevono essere dati per scritto e l’ordine scritto doveva venire conservato nel fascicolo.

Questo era il grande rivoluzionario progresso che stavano festeggiando: ricevevano ancora ordini, perché la legge questo prevedeva, ma li ricevevano per scritto e una traccia ne rimaneva nel fascicolo. Quindi il cambiamento che tutti avevano molto positivo era che non c’era più l’arbitrio del ministro che faceva quello che voleva e non doveva rendere conto a nessuno: quantomeno doveva emettere nero su bianco l’ordine di cui doveva restare traccia nel procedimento processuale.

[…]

Se il pubblico ministero viene distaccato, separato dai magistrati giudicanti, ripeto, i pubblici ministeri, che sono circa un migliaio, e hanno un potere enorme, obiettivamente sono molto potenti per legge, non possono essere sganciati da ogni controllo, non possono considerarsi un corpo indipendente, non esiste che un corpo di mille persone non sia in qualche modo controllato da qualcuno, non può essere sgarciato da ogni controllo. Ma se entra in qualche sfera di controllo è quella del governo che lo condiziona.

Allora anche per questo motivo, che non può esserci una soluzione diversa se si vuole salvaguardare la democrazia, le carriere devono rimanere congiunte, non possono essere separate.

Se il magistrato per legge riceve ordini dalla politica, i reati del potere, le malefatte del potere, non saranno più perseguite. In un paese dove le stragi fasciste devono ancora avere delle risposte, o perlomeno delle risposte complete, dove neppure i fatti gravissimi, anche le stragi di mafia, non sono state risolte completamente. Ecco, in un paese con questi problemi, con queste difficoltà ancora oggi, un pubblico ministero che non può occuparsi di queste cose fa cadere la speranza di poter arrivare alla verità sulle cose che contano.

Guardate, i misteri d’Italia, ce ne sono ancora tanti. Con un pubblico ministero che riceve ordini dalla politica, quando questi misteri riguardano la politica , il pubblico ministero non farebbe niente per provare a sciogliere via questi misteri. Ce ne sono tanti, non si riesce a chiarire questi misteri, però almeno i tentativi ci sono ancora, i tentativi anche se ostacolati in tutti i modi continuano.

Facciamo per una volta degli esempi banali, per capire.

Ripeto, il mio rispetto per la polizia è assolutamente incondizionato, ma può capitare, a volte capita, è capitato che non la polizia ma alcuni singoli poliziotti commettano degli abusi. Se a comandare il pubblico ministero è la politica, con tutta probabilità questi abusi non saranno mai colpiti, non verranno mai scoperti e se cambia il modo di fare informazione, non ne sapremo mai neanche niente, o perlomeno ne sapremo pochissimo e non ne potremmo saperne di più perché c’è il bavaglio. Il bavaglio è già arrivato, non è più soltanto una riforma, il bavaglio dell’informazione, del diritto di voi, di noi cittadini di essere informati è ormai una realtà.

[…]

L’indipendenza della magistratura non è un patrimonio della casta dei magistrati. Non scherziamo. L’ho già detto mille volte e lo ripeto ancora: non è un patrimonio della casta dei magistrati, ma è un patrimonio dei cittadini perché senza l’indipendenza della magistratura non c’è speranza di uguaglianza dei cittadini tutti.