Le lapidi ai partigiani caduti in Val Pellice; mappe e schede storiche raccolte in opuscolo

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Estratto: la premessa.

La Resistenza ha creato nel dopoguerra un suo modo di fare monumenti. Diversamente dalla funzione funeraria e di elaborazione colletti­va del lutto che avevano i monumenti ai caduti di cui nel primo dopo­guerra si sono riempite le nostre piazze, i monumenti ai partigiani ca­duti e agli orrori della lotta di Liberazione avevano, e si può dire che ab­biano conservato, una funzione di testimonianza, di sollecitazione della memoria, di richiamo ai valori di libertà e di democrazia di cui quella guerra fu espressione e di cui vengono ritenuti alfieri coloro che in quella guerra caddero, “martiri dell’eterna Libertà”.

E dal momento che quella guerra di resistenza e di liberazione fu com­battuta non da soldati addestrati preventivamente alla guerra ma da giovani che mano a mano venivano chiamati alle armi e che in quel momento sceglievano da che parte stare, da gente che si vuole “normale”, civile e non militare, che si univa ad altri combattenti per un moto dell’animo, o per un interesse, o un’opportu­nità, in ogni caso per una decisione soggettiva e non per una coscrizio­ne obbligatoria, di conseguenza il monumento s’è fatto discreto, sobrio, distribuito nei luoghi della nostra esistenza: s’è fatto lapide di pochi centimetri quadrati apposta nel luogo in cui avvenne il sacrificio di un martire, il cui gesto e il cui nome vanno ricordati e omaggiati, come lo sono in effetti ancora adesso che sono passati ottant’anni da quella guerra.

Rendiamoci conto dell’enormità di questo gesto di omaggio: sarebbe equivalso ad omaggiare nel 1940 un caduto o un insieme di caduti di una battaglia risorgimentale, ciascuno indicato per nome perché caratteriz­zato da un gesto e una volontà personale.

Potremmo però forse tranquillamente affermare, se l’espressione non facesse inorridire i linguisti, che negli anni successivi alla fine della guerra la Resistenza non si è solo data un modo di fare i suoi monu­menti, ma ha inventato e codificato una dottrina, uno stile che potrem­mo chiamare “monumentalistica resistenziale”.

E’ questa dottrina (e cos’altro se no?) che ci ha portato a creare un piccolo database con l’elenco delle lapidi dei partigiani caduti in Val Pelli­ce e ad offrilo sia in consultazione interattiva su web che in opuscolo scaricabile e stampabile; ogni lapide censita, localizzata in una mappa, ed accompagnata da una scheda storica sui fatti e le persone di cui è testimone.

Ma giunti che siamo alla fine di questo lavoro, abbiamo scoperto… l’ambivalenza della “monumentalistica resistenziale”.

Dal momento che non sono state apposte lapidi a tutti i parti­giani caduti, ci siamo trovati davanti a una domanda: cosa ha portato a fare una lapide a un partigiano piuttosto che a un altro?

E’ vero, talvolta il gesto è stato eclatante, il sacrificio è stato supremo, la morte simbolica, la personalità ed il carisma del caduto fuori dall’ordinario…

O l’evento tanto atroce, efferato da avere segnato indelebilmente un luogo, da cambiarne la natura; come se la lapide dicesse al passante “Fa’ attenzione, questo luogo non è quello che sembra e non è più quello che era”.

Altre volte invece sono gli affetti e i sentimenti ad aver giocato un ruolo: fami­liari che hanno voluto che la morte di un loro caro non fosse dimenticata, commilitoni che hanno intrattenuto col caduto relazioni particolarmente amichevoli, un partigiano che “si fa ricordare” più di al­tri…

Ma poi, dedotti tutti questi casi, la domanda resta: perché a un “normale” partigiano, “normalmente” caduto in combattimento s’è fat­ta una lapide e ad altri come lui no?

Riconosciamo di non aver trovato risposta, ma il semplice pensiero alle domande che ci ha posto la “monumentalistica resistenziale” ha fatto in modo che dedicassimo questo lavoro sulle lapidi ai partigiani caduti in Val Pellice… ai partigiani caduti in Val Pellice che non sono ri­cordati da una lapide.