Premessa
Sotto il titolo “Testimonianze oltre il ponte” i numeri 7 e 7A dei Quaderni sulla Resistenza in Val Pellice riportano una lunga serie di testimonianze rese da un piccolo gruppo di partigiani che hanno militato nelle formazioni garibaldine dell’alta Val Luserna. Il ponte a cui fa cenno il titolo è quello che unisce i due versanti del Pellice all’altezza di Luserna San Giovanni, tra le frazioni di Airali e Luserna Alta e che permette di accedere appunto alla Val Luserna.
Occupata in un primo tempo da formazioni spontanee di giovani renitenti alla leva che arrivavano dalla pianura e dall’area di Torino che si richiamavano genericamente al movimento Giustizia e Libertà, la valle fu in seguito occupata stabilmente dalle formazioni di Pompeo Colajanni “Barbato” e Vincenzo Modica “Petralia” organizzate allora nella 4ª Brigata della 1ª Divisione Garibaldi “Carlo Pisacane”, la futura 105ª Brigata d’assalto, che vi trovarono rifugio dopo il duro rastrellamento tedesco del dicembre 1943.
Le testimonianze pubblicate sui Quaderni sono “ricordi” scritti in piena libertà dai protagonisti, manoscritti o dattiloscritti i cui originali sono andati perduti, fatti pervenire ai curatori dei Quaderni grazie all’interessamento e, immaginiamo, alle sollecitazioni di due protagonisti molto attenti alla conservazione della memoria, Renzo Sereno, all’epoca presidente della sezione ANPI di Luserna San Giovanni, e Vittorio Rostan, comandante di uno dei distaccamenti della Brigata.
Tra i contributi emergono quelli, numerosi, di Luigi Negro, il partigiano “Dante”, comandante di distaccamento e commissario di guerra.
Ricerca triennale delle classi
a.s. 1997-’98: 1^ B/IGEA e 5^ B/PNI
a.s. 1998-’99: 1^ A/IGEA e 4^ A/Op.Tur.
a.s. 1999-2000: 2^ A/IGEA e 5^ A/Op.Tur.
dell’Istituto Tecnico Statale Commerciale e Professionale per il Turismo “L. B. ALBERTI” di Luserna S. G. e Torre Pellice
Coordinata dai Proff. Luigi Bianchi e Marisa Falco
Qui il sito originario
Qui abbiamo raccontato la storia dei Quaderni
Leggi il testo qui di seguito o vai all’opuscolo originale.
Quattro compagni
Luigi Negro traccia il ritratto di Balestrieri, Coggiola, Catanza e “Autista”.
Balestrieri
Due fratelli, due ufficiali del Regio Esercito.
Il più anziano di complemento, il più giovane in SPE [Servizio Permanente Effettivo].
Pinerolesi, all’otto settembre si trovavano uno in Slovenia e l’altro nel Trentino.
Sarebbe un bel racconto il loro “viaggio” per tornare a casa, concluso verso fine mese.
La repubblichetta fascista richiamava alle armi, l’alternativa erano le formazioni Partigiane che stavano nascendo e sviluppandosi.
“Vecchi” in rapporto alla maggior parte dei Partigiani, che erano principalmente delle classi ’23-’24-’25.
Avevano un’esperienza dovuta all’età e alla vita militare.
Divennero Comandanti di valore combattendo fino alla fine, e se non divennero “leggendari”, come Barbato, Boldrini ed altri, fu per il loro carattere e le loro convinzioni.
Un’azione da loro guidata rimane nella storia delle Brigate garibaldine del Cuneese e del Piemonte: l’attacco all’aeroporto di Murello con la distruzione di trentadue aerei.
Una pietra miliare per tutte le formazioni: il passaggio dall’infanzia alla maturità delle forze antinaziste.
Un’azione concepita e preparata bene, eseguita ancor meglio con una valenza enorme ben oltre al danno arrecato al nemico.
Nata dall’intuizione di Balestrieri 1°, il più anziano, durante le azioni in pianura per sabotaggi e ricerca di rifornimenti.
Comprese l’importanza e come l’attacco fosse possibile.
Aveva studiato e capito i punti deboli della sorveglianza.
I fascisti non ritenevano le forze partigiane in grado di compiere un’azione simile.
L’attacco nella notte del 2 dicembre del ’43. Due camioncini e un’auto, una ventina di uomini. Sorpresa la guarnigione e disarmata, incendiati gli aerei, alcuni già con le insegne dei ‘nazi’ sulla fusoliera.
Non ci fu la prevedibile reazione tedesca della guarnigione di Racconigi o dell’aeroporto di Scarnafigi.
Un bagliore immenso, un fascio di luce illuminava e riscaldava i cuori in quel periodo buio e freddo.
All’alba al ritorno, in ogni frazione o paese attraversato un’ala di gente entusiasta e felice.
Un impatto enorme, una folgore, un segnale a tutti.
Anche i bollettini di guerra alleati lo menzionarono: “I Partigiani ci sono, forti e decisi e con voi e per voi combatteranno”.
L’azione era stata audace come intuizione, determinazione e coraggio e se Balestrieri diceva che si rilevò semplice, per i ‘nazi’ fu un’amara sorpresa: non potevano supporre che la capacità organizzativa e decisionale dei “ribelli” fosse stata raggiunta in così breve tempo.
E amara sorpresa, oltre al coraggio, la perfetta esecuzione, il coordinamento, la disciplina dei ragazzi, la motivazione che, dai comandanti all’ultimo partigiano, avevano dimostrato.
E soprattutto gioventù preparata da loro… “sotto la guida illuminata del duce”.
Compresero anche l’importanza enorme dell’episodio.
La Resistenza sapeva colpire ovunque e le guarnigioni nazifasciste non si mossero più e mai uscirono dalle loro roccaforti-caserme se non in grandi forze.
Era passato quasi un anno e mezzo da quel due dicembre e le formazioni si stavano portando verso Torino, verso l’ultima battaglia.
Su quel camion, un Bianchi Miles, che stava portando il distaccamento del Montoso, c’era ‘Balestrieri’ 1° che lo comandava e ‘G.N.’ era il suo Commissario di Guerra.
Dopo gli ultimi scontri e gli ultimi caduti, a Torino, vedendo la città in festa per la liberazione, la fine dell’incubo della guerra, con l’ultimo anno di fame, bombardamenti, coprifuoco e con il buio nel cuore, quel periodo nero con rastrellamenti di civili, deportazioni, impiccagioni e fucilazioni disse: “Non passerà molto tempo che ci metteranno in condizione di non poter più dire che siamo stati partigiani”.
Fu buon profeta, non era un politico, ma capì più di tutti loro che il nostro movimento non poteva essere accettato, perché si era combattuto non solo contro i nazifascisti, ma anche per una maggior giustizia sociale, per eliminare quegli scompensi sociali che avevano portato a due guerre mondiali con decine di milioni di morti, con sconquassi sociali,
“La Resistenza sapeva colpire ovunque e le guarnigioni nazifasciste non si mossero…” corruzione, arricchimenti, a un degrado morale che avvelenava la Nazione.
Quelle forze che avevano portato a questi risultati di morte e distruzione paventavano di vedere attaccati i loro privilegi, non volevano rendere conto dei loro misfatti.
Erano quelli che appoggiarono il fascismo non per ideologia ma per il loro interesse che collimava con il regime che portò alla nazione il radio e tutti gli altri apparati propagandistici, che permisero l’aggressione a tutta l’Europa con distruzione, genocidi e tutti gli orrori che la guerra ha comportato, erano sempre in mano loro.
Per difendere il loro potere e i privilegi accumulati, avrebbero infangato e distrutto quanto di pulito era rimasto e non avrebbero accettato di pagare un pur minimo prezzo per ricostruire la nazione: lungimiranza amara, ma profetica.
Immediatamente si vide come gli alleati non permisero la pur minima epurazione; non un solo gerarca fu rimosso; impedirono che nell’apparato amministrativo pubblico entrassero gli antifascisti.
Imposero l’immediato scioglimento delle formazioni partigiane con il conseguente allontanamento dei singoli con disagi enormi per chi era originario da paesi lontani lasciati allo sbando.
D’altronde si sapeva con certezza cosa sarebbe avvenuto esaminando le relazioni dei comandi e dei C.L.N. delle zone liberate, che illustravano la situazione e il comportamento degli alleati.
Tra l’altro, alla voce “Epurazione” una sola riga: meglio farla ‘prima’.Coggiola
Il Dottor Coggiola, Primario all’Ospedale Mauriziano di Torino.
Molti partigiani gli devono la vita.
Feriti venivano dirottati a lui, al suo ospedale e con l’aiuto del personale, infermieri, suore, nascosti, curati e rimessi in quadro.
Era una persona buonissima, perciò con un po’ di ingenuità e fiducioso in tutti un po’ troppo. E i ‘nazi’ lo arrestarono, senza capire l’importanza che aveva per la Resistenza.
Lo catalogarono come un caso, senza capire l’organizzazione che aveva creato.
Però era dentro e, dato i tempi, in certo qual modo era più facile morire che continuare ad invecchiare. In tali frangenti arrivava la richiesta dai Comandi di reperire… ‘materiale sanitario’, cioè materiale di scambio… qualche ufficiale tedesco.
Trovarli non era difficile, prenderli un po’ più complicato. Ce n’era una mezza miniera che viaggiava sul trenino di Saluzzo per Torino.
Viaggiavano abbastanza tranquilli, ma vedendo i partigiani perdevano un po’ di serenità e gli veniva un po’ il batticuore, ma sapevano di avere buone probabilità di cavarsela.
Tra le altre cose, si ricorda di un Maggiore ‘in soggiorno’ in una base del Montoso, verso fine maggio ’44.
Si chiacchierava tranquillamente con educazione e cortesia, magari falsa, e a fronte della tambureggiante propaganda hitleriana circa le armi segrete, ritenuta solo propaganda, parlò di un cannone con gittata oltre 500 chilometri e di un bombardiere micidiale e decisivo.
Nella nostra santa ignoranza, gli dicemmo di non raccontare tante balle e che si svegliasse un pochino, lui e i suoi colleghi. In pratica parlò di “V1” e della bomba atomica.
Due giorni dopo fu restituito ai legittimi proprietari ed il Dott. Coggiola ritornò al Mauriziano, con raccomandazione- “minaccia” di non fare più certe cose.
Ci credereste se vi dicessimo che due mesi dopo avevamo necessità urgente di un altro Maggiore tedesco?
Coraggio ne aveva, ma quanto ad imparare a lavorare clandestinamente, proprio no.
Quando si seppe della necessità di trovargli il secondo scambio, l’esclamazione più simpatica fu: “Ma quello lo fa per vizio!”
Come funzionava il rifornimento di “materiale sanitario”?
Si fermava il trenino in aperta campagna, nella zona di Moretta-Pancalieri.
Non difficile, anche perché i macchinisti sapevano, non che fossero felici a vedere i partigiani, ma “non si sa mai…”
Si fermavano al punto giusto…
Si saltava sui vagoni e si ritiravano i ‘pacchi’.
Fascisti no: era merce scadente ed inservibile.
Si sarebbero dovuti buttare loro; erano coscienti di ciò e non c’erano di sicuro. Poi un bel giorno, i neri ‘si incazzarono nero’ e, forse perché i loro padroni Tedeschi gli toccarono il tempo, prepararono quello che per loro avrebbe risolto definitivamente il problema..
Fecero scendere tutti i passeggeri e salirono loro in due-trecento.
Il trenino, invece di fermarsi all’alt, proseguì.
Un attimo di sorpresa e i partigiani aprirono il fuoco e, siccome in ogni dove ci sono sempre i più furbi, parecchi erano sui predellini pronti a saltare giù e agguantare i banditi, così la maggior parte fu colpita in “passerella”, cadendo dal treno che si fermò due-trecento metri avanti. Ci fu tempo di recuperare quattro cinque mitra, un paio di pistole e qualche cosa d’altro.
Scesero tutti e si disposero a ventaglio per circondare la zona.
Ad ogni buon conto era più salubre uscire dall’accerchiamento: uno contro venti, come al solito. Utilissimo alzare i tacchi. Passare attraverso le maglie del loro schieramento non era troppo difficile: erano raggruppati a gruppi di 10-20, non avevano il morale troppo alto, visto il primo approccio, e non erano troppo tranquilli.
Non avevano di fronte civili disarmati come nelle retate in città e nei paesi. Bastava passare tra un gruppo e l’altro.
Dopo c’era un canale per l’irrigazione, più o meno profondo un metro e mezzo e largo una dozzina.
Entrati nel canale con le mani sopra la testa, in una il mitra e nell’altra i caricatori. Tutto bene.
Sull’altra sponda, ‘Livio’ chiede a ‘Budu’: “ Dammi un caricatore…”
“E i tuoi?”. “I miei sono bagnati”.
“Cosa avevi in mano?”. “Lo Sten”.
“E nell’altra?”. “Le sigarette!”
Si udì un “Cristo”, che metà bastava.
Finito il trambusto: “Dammi almeno una sigaretta…”
“Non si può fumare”
“Perché?” “Avevo i fiammiferi in tasca”.
Non esplose un altro “Cristo”, ma qualcosa d’altro sì.
Steve avanzava, quando lo colpì una “balilla”: una bomba di alluminio che faceva un gran botto e basta.
Lo aveva colpito al ginocchio e gli aveva fatto un gran buco nei pantaloni “inglesi”.
‘Meo’ disse di piantarla che lui dieci giorni prima ne aveva pestata una che gli aveva fatto partire le suole, rovinandogli le scarpe.
Il rammarico era lì: pantaloni e scarpe rovinate.
Che zoppicassero, era una cosa secondaria.Catanza
Nome di battaglia Catanza, perché calabrese della provincia di Catanzaro.
Una storia come tante altre del nostro sud. Di solito famiglie numerose, non così la sua: una sola sorella.
Il padre, emigrato in Argentina, non trovò la fortuna che era andato a cercare.
Lavorò come un mulo, tale e quale a casa, con umiliazioni e sacrifici da emigrato povero.
Non robustissimo, lavorò nelle pampas, ma era un pastore di pecore, non un gaucho.
Non tornò più e nemmeno poté chiamare a sé la sua famiglia.
Scomparve in qualche regione dell’interno: una delle migliaia di tragedie sopportate dal nostro popolo.
Il figlio nemmeno lo ricordava, troppo piccolo, ma era una ferita al cuore che non si era mai rimarginata.
Come tutti i ragazzini come lui, poca scuola e a lavorare prestissimo.
Diceva di aver zappato tanta terra da riempire tutta la Val Luserna.
La madre in casa era in condizione di inferiorità, in una società che non permetteva alle donne di avere una loro attività e indipendenza, praticamente recluse; lavoro fino allo sfinimento e magari considerata un peso da mantenere e senza voce per sé e i propri bimbi.
Suo padre aveva una dozzina di fratelli e sorelle e si ritrovò servo di zii, cugini, cognati. Soldi niente, mangiare poco e lavoro tanto.
Fortuna? Il clima caldo, che rimpiangeva sempre.
Un po’ di latte, piante di olivo e frutta gli permettevano di andare a dormire quasi sempre non affamato.
Sentiva parlare del favoloso Nord, dove con il lavoro c’era possibilità di fare una vita decente.
Si ritrovò a Torino con il debito del biglietto del treno e poche lire prestategli sulla parola. Disastroso.
Si adattò a fare di tutto: lavori umili, pesanti e anche pericolosi e non tutti i giorni riusciva a sfamarsi.
Impossibile ottenere la residenza, perché tra le ideologie del regime c’era quella dell’Italia rurale, potenza rurale, e cambiare residenza era quindi difficilissimo, anche a causa della guerra e della necessità di mano d’opera. Chissà come ragionava la burocrazia fascista.
Non peggio di quella dei giorni nostri perché è ancora quella ereditata da allora. Quindi lavori precari, in nero e sottopagati.
Insomma se non patì la fame in Calabria, in Piemonte sì!
Non aveva nemmeno la tessera del razionamento e piante di frutta e olivi: ‘nisba’. In compenso tanto freddo… l’umiliazione e l’emarginazione dell’immigrato meridionale e povero.
Era la cosa per lui più amara. Arrivò in formazione che aveva 18 anni. Nessuna forma di razzismo, nord-sud nessuna differenza.
Si trovò forse per la prima volta uguale tra uguali, persino con chi aveva responsabilità di comando.
“Un mondo nuovo, un sole abbagliante e caldo”, diceva.
Scoppiò di felicità.
Gli sembrò un paradiso e non vedeva nemmeno il pericolo e non gli pesava la vita grama e pericolosa.
Voleva bene a tutti, aiutava tutti: sempre disponibile, anche con i civili.
Si comportò da valoroso. Cadde in combattimento in valle.
Lasciò un rimpianto, una profonda tristezza e il rammarico quando scoprimmo che sapevamo tutto di lui, ma non il cognome e da dove veniva.
Fu sepolto nel cimitero di Luserna, contro il muro di cinta, vicino ai caduti partigiani. Sulla sua lapide c’era solo il nome di battaglia: CATANZA.Autista
Nome di battaglia, non scelto ma ‘appiccicato’, perché sapeva portare un camion.
Forse non aveva le idee chiare di come si dovesse fare, almeno all’inizio, ma li portava. L’incoscienza dei tempi e dell’età non poneva problemi e se c’era da andare, si saliva sull’autocarro… e via.
Le istruzioni belliche al guidatore erano semplici e chiare: “Se ci si imbatte in un posto di blocco, si rallenta per dare l’impressione di volersi fermare per il controllo; per poi accelerare di colpo, per la sorpresa”.
La preparazione bellica non andava più in là.
Se si avevano tempo e fortuna, si suppliva con l’esperienza.
Era del ’22, una di quelle classi chiamate in pieno “centro” del conflitto, quelle che avevano avuto tutto il tempo di farsi le ossa, se non le avevano perse, un po’ su tutti i fronti di guerra.
…La prima esperienza la raccontava con serietà, ma faceva sorridere come la presentava.
Aveva lavorato come apprendista e operaio in alcune officine meccaniche per riparazione auto, moto e affini.
Era abbastanza appassionato e si riteneva un bravo motorista; forse lo era, anche se c’era qualche motivo per dubitarne.
Richiamato, anzi chiamato alle armi nell’autunno del ’42, si ritrovò al cospetto d’ufficiali, sergenti, marescialli vari che, con fare preoccupato e severo, facevano discorsetti del tipo: “Dobbiamo fare di voi degli uomini (chissà cos’erano…), dei soldati, dei combattenti per la Patria”, e qualcuno parlava anche dei famosi “destini radiosi, della ferrea volontà di combattere, di reparti forgiati per vincere”… e magari anche qualche “stronzata maggiore” come “sotto la guida illuminata del Duce”.
Cose che convincevano poco il ‘nostro’ e che, come tutti i ragazzi, viveva quei momenti spaesato, preoccupato e frastornato dall’ambiente e dal vociare dei graduati con più o meno tante righe e greche.
In quei giorni nascevano anche amicizie che duravano e diventavano fraterne con il prosieguo della vita militare e dei pericoli che comportava.
Erano poi gli unici ricordi positivi che rimanevano.
Si cercava di capire cosa bisognava fare per passare meno peggio quella vita in divisa, in ambiente per nulla piacevole e certamente non amato. Il ‘nostro’ pensava, mentre erano raggruppati e suddivisi nell’enorme cortile della caserma: “Ma papà e mamma non potevano andare al cinema quella sera e rimandare l’operazione prole?”, e una voce possente: “Chi di voi è un bravo motorista?”. Afferrò al volo la situazione: sistemarsi in qualche modo, alla meno peggio, con le proprie capacità di lavoro, magari continuando un’attività che piaceva, migliorando ancora, utile al ritorno “civile”. Quindi, braccio alzato e voce forte e ferma: “Io, signor sergente!”. Nessuno gli aveva spiegato che nel “Regio” bisogna sempre volare basso.
“Bravo, vieni. Laggiù al fondo c’è la macchina del Colonnello; la voglio lavata alla perfezione! Sveglia! Non fare il lavativo e sbrigati!”- con la classica chiusura – “se no, ti schiaffo dentro!”
Faceva frescolino, sparò una silenziosa bestemmia e imparò in quei pochi minuti più che in tutto il resto della sua precedente esistenza e, a sentire lui, comprese tutto del “Regio” e di tutti gli altri eserciti del mondo.
Comunque la macchina del Colonnello era brillante e lucida, ma era un po’ sfasata, sputava; forse qualche “condensa”, diceva lui, o qualche goccia d’acqua condensata nel serbatoio.
Forse nella vita qualche cosa l’aveva già imparata prima.
Dopo la terza macchina da lui lavata, e che poi “sputava”, qualcuno cominciò ad avere un dubbio, più che un dubbio, e uno, ‘incazzato’, forse non aveva digerito la colazione, lo mandò a pulire cinque carri armati. “Li voglio per stasera!”
L’altro sergente vicino sussurrò: ”Lascia perdere che questi carri partono dopo domani per il fronte”.
Il suo reparto andò a finire in Libia e si ritrovò ad accompagnare i camion lungo la litoranea, avanti e indré, a portare vettovagliamento, munizioni e poi a mettere a posto il “magazzino”, piantare tende e quanto altro serviva per la vittoria.
Arrivò a Tobruk, ma non a El Alamein. Si ammalò prima e fu rimpatriato con una nave ospedale.
Cosa avesse non lo sapeva bene, ma si beccò una pleurite.
Come si può prendere una pleurite nel deserto africano?
C’era riuscito lui.
Però era stato aiutato da un lavoro stressante e spossante sugli automezzi e, a parte i mitragliamenti, il poco da mangiare e meno ancora di acqua. Non ci si tirava indietro per rispetto, e il reciproco aiuto con i commilitoni: “Mica tutti erano Generali o Colonnelli, e i Sergenti urlatori al fronte non li vedevi. Eravamo tutti poveri diavoli e tra noi immensa solidarietà”.
L’otto settembre lo trova convalescente in una colonia marina adibita all’uso, sulla costa ligure, vicino a Varazze, trasformata in ospedale militare.
Cosa sia successo con l’otto settembre, la tragedia di milioni di soldati abbandonati a se stessi, il tracollo di una classe dirigente bacata e incapace, e di conseguenza anche lì fu caos.
Pensò bene di alzare i tacchi e tornare a casa, a Torino, con le varie vicissitudini del caso, e con la speranza, non razionale, ma dovuta al desiderio di un po’ di pace e tranquillità, sperando che il peggio fosse forse passato.
Illusione! Si ritrovò praticamente clandestino e quindi, come molti giovani, arruolati nella Resistenza, SAP, CLN, organizzazioni nelle fabbriche e nei quartieri.
Arrivava però il momento che era più… salubre cambiare aria e ritrovarsi partigiano.
Così al Montoso sentì il comandante di Distaccamento: “Chi sa guidare un camion?”
Afferrò al volo la situazione come appena arruolato nell’esercito: “Io, se non c’è da lavarlo”. Altro spirito e volontà.
“Bene, stasera dobbiamo scendere per una missione”.
Va da sè che tutti gli automezzi in guerra non sono mai perfetti, quelli partigiani poi… Non tutte le marce entrano, non partono mai al primo colpo, le portiere chiudono così così, i fanalini dietro quasi mai si accendono e i fari davanti solo in casi eccezionali si accendono tutti e due, e difficilmente guardano nella direzione giusta.
Logico, erano automezzi militari trovati nascosti chissà dove e chissà come, quindi usati da autisti improvvisati, pezzi di ricambio, col cavolo trovarne!
Quindi, a notte, discesa dal Montoso, ove c’erano le cave di granito, le famose pietre di Luserna, che si portavano a valle con carri trainati da cavalli o muli, ruote strette e alte che formavano rotaie lungo tutta la strada, profonde e… migliorate da pioggia e neve. Una strada ripida e curve strette. Partenza!
I fanali funzionavano, quello di destra puntava la luce sulla punta degli alberi di sinistra, quello di sinistra in basso, piuttosto verso destra. Tutto bene.
Si cercò di migliorare la situazione ma, visto che invece peggiorava, si partì tranquilli.
‘Autista’ fu abile, o se preferite se la cavò. Anche chi era seduto al suo fianco: “Guarda che vai nel fosso! Stringi, stringi!”, fu buon navigatore.
Fermati al fondo, quasi al bivio di Bagnolo, per riordinarsi le idee, ‘autista’ sbotta: “Credevo che guidare un camion fosse più difficile”.
Aveva guidato al massimo automobili, e poi ancora…
“Accidenti!” – qualcuno esclamò – “ma siamo proprio sicuri di avere a posto il cervello?”. Sì, la Stella Polare non era ben posizionata nella testa di parecchi. Comunque l’azione proseguì e il camion ritornò a Montoso indenne, o quasi.
Ormai la strada da autiere l’aveva imboccata e si ritrovò in pianura, 10 11 “Arrivava però il momento che era più salubre cambiare aria e ritrovarsi partigiano.” 13 nelle Langhe, nel Monferrato.
Arrivò a Torino e “G.N.” lo incontra in Via Roma, con un Bianchi-Miles dell’ex Regio, abbastanza in buono stato, ma fermo, e lui urlava come un’aquila, e gli gridò:“Ehi! Ti han promosso sergente?”
Si voltò, si riconobbero e fu una risata. Anche per la gioia di ritrovarsi vivi, dopo mesi di guerriglia, non sapendo nulla uno dell’altro, cambiando zone e formazioni…
Una cosa carina, per come la raccontava.
Poco dopo la Liberazione era stata formata una Cooperativa trasporti di partigiani, con gli automezzi militari rimasti in formazione.
Ricuperata anche un’auto OPEL tedesca, adibita, per uso aziendale, a consegne veloci e quanto comportava.
Il ‘nostro’ percorreva il Corso Regina; fermo al semaforo centrale di Porta Palazzo, davanti a lui una “500” tenuta bene e una donna al volante.
Al verde, il vigile fa segno di muoversi; la donna è impacciata; il vigile fischia, smanaccia e urla di sbrigarsi.
Il fatto è che la signora era “partita”e, nella confusione, aveva messo la retromarcia, e pianta di conseguenza una botta nel paraurti della OPEL, poi ancora due tre colpetti.
‘Autista’ non fa come avrebbero fatto tutti, o quasi, un po’ di pazienza o avvicinarsi con calma.
No! Salta giù e al vigile, che stava fischiando e agitava il bastoncino, urla: “Lei la smetta e stia calmo, che questa mi salta sul cofano!”
Discussione con il vigile, confusione, la donna in “500” mette la marcia giusta, parte col rosso, il vigile si scansa di scatto e la “500” centra una palina della segnaletica.
Nel complesso pochi i danni, ma decine di curiosi ad intralciare il traffico con un ingorgo riuscito bene, malgrado il poco traffico di quei tempi.
Pochi anni dopo lo ritroviamo all’ATM, azienda tranviaria, guidava autobus. Un lavoro di routine, tranquillo e sereno; era perfino ingrassato di qualche chilo.
“Allora, come va ‘autista’?”
“Come vuoi che vada, da un capolinea all’altro. Conosci ogni pietra, ogni salto, ogni portone e perfino le facce, che sono sempre le stesse.
Ogni tanto cambio linea, così posso svagarmi un pochino e ammirare qualche altro angolo di Torino.”
L’impressione degli amici era che non avrebbe resistito molto; infatti ne combinò una delle sue.
Portava il bus che percorreva il Corso Vittorio Emanuele; arrivato al monumento del Padre della Patria, pensò di svagarsi un pochino, e forse si sentì “pilota”, non solo conducente di bus… e fece tre giri della “rotonda” attorno al monumento, e senza ridurre nemmeno troppo la velocità.
La confusione a bordo era da immaginare: chi imprecava, chi gli mandava accidenti, chi si faceva il segno della croce, chi urlava come un’aquila.
Lui era soddisfatto, si sentiva realizzato e… alla sera appiedato. Più tardi aveva un’officina di riparazione auto, sapeva lavorare bene e se la cavava brillantemente, ma… non portategli auto sporche e da lavare!
[fine]