La Resistenza fu un fenomeno transnazionale e internazionale.

Conferenza tenuta a Torre Pellice il 9 settembre 2022 nell’ambito delle iniziative promosse dal Comitato Val Pellice per la difesa dei valori della Resistenza e della Costituzione repubblicana in occasione del 79° anniversario dell’8 Settembre.

Mirco Carrattieri è assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna. È stato direttore della rivista «E-Review» dal 2013 al 2022; direttore del Museo della Repubblica di Montefiorino e della Resistenza italiana dal 2016 al 2019; direttore generale dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri dal 2018 al 2021.

Abstract: tramite numerose citazioni bibliografiche, racconti di storie personali e collettive, aneddoti Carrattieri dimostra che la Resistenza italiana è stata un fenomeno transnazionale e internazionale che ha visto protagonisti sul territorio italiano combattenti delle più diverse nazionalità mossi da diverse motivazioni e circostanze.

(Trascritto da TurboScribe.ai revisionato da anpivalpellice.it )

[…]

Vorrei partire dal fatto che siamo appena dopo l’8 settembre. L’8 settembre viene ricordato in Italia in riferimento a quanto accade nel ‘43, quindi all’annuncio dell’armistizio, ed è stato rappresentato in vari modi anche opposti. Tradizionalmente per il mondo resistenziale è stato l’inizio della Resistenza, però a partire dagli anni ‘90, quando è cominciato il dibattito pubblico per contestare la Resistenza, è emersa una tesi diversa, cioè quella che è stata chiamata la tesi della morte della patria. Quindi l’8 settembre del ‘43 è uno dei momenti più tragici della vita del Paese, di fatto quello che ha sancito il crollo del sentimento nazionale.

Ecco, io vorrei partire da questa lettura. Questa lettura che è stata presentata per esempio da Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera, con una polemica anche con l’allora Presidente Ciampi, è stata facilmente contestata ricordando che […] quella che era morta l’8 settembre del ‘43 era la patria fascista, non quell’unica patria italiana. E che anzi uno dei momenti fondamentali della Resistenza era proprio un’altra idea di patria. Però anche questa risposta, che è sicuramente valida, mantiene un elemento, secondo me, insufficiente.

La vera risposta a questa valutazione dell’8 Settembre come una morte della patria sta secondo me nel fatto che la Resistenza, da un certo punto di vista, è stata proprio una messa in discussione del concetto di patria di carattere primo-novecentesco, cioè un concetto esclusivo e aggressivo di nazione. Questo è molto importante. Perché e come la Resistenza ha messo in discussione questa idea? Innanzitutto la Resistenza è stata un fenomeno di dimensioni sovranazionali e lo è stata da vari punti di vista.

Lo è stata perché ha coinvolto delle culture politiche sovranazionali. Penso a quella socialista-democratica, a quella cattolica-democratica, a quella liberal-democratica, che non erano proprie di singole nazioni ma erano diffuse in Europa. Lo è stata perché già a partire dagli anni Trenta era maturata un’idea sovranazionale di antifascismo, che non riguardava più solo l’Italia, in particolare dopo la presa del potere di Hitler in Germania. È stata sovranazionale anche perché è stata diretta da un cappello sovranazionale che era quello degli alleati, in particolare dei loro servizi segreti militari.

Il SOE [Special Operations Executive], cioè il servizio militare inglese, l’OSS [Office of Strategic Services], il servizio americano, hanno rappresentato un cappello sovranazionale che ha condizionato e aiutato tutti i movimenti di Resistenza nei vari paesi d’Europa. È stato la Resistenza un fenomeno sovranazionale, oltre che nazionale. È stato poi un fenomeno internazionale, cioè ha avuto degli elementi diplomatici.

Le resistenze dei vari paesi hanno dialogato fra di loro. Per esempio, nel caso della Resistenza italiana, nel maggio del 1944, più o meno contemporaneamente, tra l’altro, su questo lato dell’Italia ci sono i primi contatti fino ad accordi formali tra i partigiani italiani e i partigiani francesi. E sull’altro lato del nord Italia ci sono degli incontri e dei accordi formali tra i partigiani italiani e i partigiani jugoslavi.

Ovviamente molto diversi tra loro. Se volete poi ci entriamo. Però è interessante vedere che c’è una dimensione diplomatica dei partigiani.

Non sono solo i governi centrali che fanno diplomazia, ma anche la Resistenza, che quindi si propone come un governo alternativo. E poi c’è una dimensione, e questo è l’elemento più nuovo che è emerso nella storiografia degli ultimi anni, una dimensione transnazionale della Resistenza. Cioè ci sono persone che fanno la Resistenza in paesi che non sono il loro.

L’elemento più emblematico di questa esperienza sono le brigate internazionali della guerra civile spagnola, che non a caso viene di solito evocata come l’inizio di un movimento sovranazionale antifascista. Ma se noi pensiamo a tanti italiani di questi territori, ma anche dei miei territori, e io sono emiliano, molti emiliani sono costretti a emigrare per motivi politici durante il fascismo. E ci sono dei percorsi abbastanza canonici.

Il percorso molto canonico è antifascisti italiani che lasciano l’Italia per trasferirsi in Francia negli anni Venti, che poi quando scoppia la guerra civile spagnola vanno a combattere come volontari nella guerra civile spagnola. Finita la guerra sono costretti a tornare in Francia dove vengono reclusi nei campi della Francia meridionale e poi portati dopo l’invasione italiana al confine e arrestati dalla polizia italiana e in genere mandati al confino o in guerra. Tutto questo prima dell’esperienza resistenziale.

Queste esperienze di transnazionalità cioè faccio la Resistenza da un’altra parte sono molto interessanti e si è sviluppato un nuovo interesse per questo tema, cioè nella Resistenza italiana ci sono stati dei partigiani stranieri quanti, quali, dove, quando, perché? Ecco, oggi cominciamo ad avere delle ricerche che ci possono aiutare intanto a stimare la quantità.

Ma intanto questo fenomeno è parallelo ad un altro fenomeno cioè ci sono stati molti italiani che hanno fatto la Resistenza da altre parti e parliamo di più di 50.000 partigiani all’estero. Su questo cominciano ad esserci già degli studi interessanti penso per esempio a quelli di Eric Gobetti sui partigiani italiani nei Balcani [La Resistenza dimenticata. Partigiani italiani in Montenegro (1943-1945), Salerno Ed.] ma ci sono anche delle interessanti ricerche sui partigiani italiani in Francia, per esempio già prima del 1943. Però, ecco, volendo rimanere agli stranieri in Italia possiamo quantificare il fenomeno in almeno 10.000 quindi un ordine di grandezza abbastanza significativo se consideriamo che complessivamente i partigiani riconosciuti durante la Resistenza italiana sono nell’ordine dei 350-400.000.

Poi entriamo anche nella questione del riconoscimento partigiano che non è l’unico modo per attestare l’appartenenza alla Resistenza.

Di questi 10.000 più o meno la metà sono cittadini sovietici quindi cittadini dell’URSS, dell’allora URSS, non a caso sono stati i primi a essere studiati già negli anni ‘60. Chi sono questi provenienti dall’Unione Sovietica? Sono grosso modo due diverse tipologie di persone: ci sono, e sono la maggior parte, i prigionieri di guerra dei tedeschi, quindi i tedeschi e anche gli italiani ma gli italiani di prigionieri ne avevano portati dietro pochi dalla campagna di Russia anche per motivi logistici. I tedeschi invece dopo l’invasione dell’Unione Sovietica nel 1941 avevano fatto moltissimi prigionieri di guerra che avevano portato in Germania e quando invadono l’Italia se li portano dietro soprattutto per costruire fortificazioni, le linee difensive la linea Gustav e poi la linea Gotica.

Quindi ci sono moltissimi ex prigionieri sovietici che vengono portati dall’esercito tedesco in Italia e che poi fuggono in vari momenti con varie modalità dalla prigionia; e siccome non era molto agevole ritornare in Unione Sovietica dall’Italia la maggior parte di loro rimane sul territorio e per motivi anche politici voi sapete che il grosso della Resistenza italiana soprattutto in alcune zone per esempio la nostra Emiliana era comunista, il quadro era più sfaccettato ma per esempio nella nostra zona c’era una grande maggioranza di partigiani comunisti e quindi c’era un sistema antifascista che garantiva di nascondere questi ex prigionieri sovietici. E molti di loro poi si sono uniti alla Resistenza italiana davvero molti, ripeto è quantificabile intorno alle 5.000 unità.

Ci sono diversi, tantissimi morti parliamo di più di 300 morti durante la Resistenza ci sono 4 medaglie d’oro della Resistenza italiana che sono sovietici e anche qui in Piemonte potremmo fare diversi casi.

L’altra tipologia di sovietici è rappresentata dai disertori della Wehrmacht. Come diremo meglio dopo, le forze armate tedesche reclutano soldati in tutta Europa man mano che invadono il continente; dobbiamo tenere presente che nel 1942 alla vigilia dell’invasione dell’Italia praticamente tutta l’Europa continentale era in mano direttamente o indirettamente al Reich e in tutti questi territori si verifica poi quello che si verificherà in Italia dopo l’8 Settembre, una parte della popolazione simpatizza e collabora con l’invasore, una parte della popolazione si oppone all’invasore, la maggior parte della popolazione cerca di barcamenarsi.

Ora, questo esercito così grande reclutato in maniera più o meno forzosa durante l’occupazione dell’Europa chiaramente fa sì che le nazionalità acquisite cioè i reclutati in paesi che non sono la Germania siano più propensi alla diserzione cioè se io sono un ceco, uno slovacco, un polacco, un ucraino che sono stato invaso dalla Germania, sono stato reclutato dai tedeschi, sono meno legato ideologicamente e nazionalmente all’esercito e quindi in una situazione di difficoltà è più facile che io diserti. E infatti la grande maggioranza dei disertori della Wehrmacht, quindi delle forze armate tedesche, non sono tedeschi, appartengono a queste nazionalità, in particolare appartengono alle nazionalità non russe dell’Unione Sovietica.

L’esempio forse più eclatante sono i cosiddetti mongoli; in diverse località italiane si ricordano i pesanti rastrellamenti fatti dai cosiddetti mongoli che erano soldati della Wehrmacht con caratteristiche somatiche evidentemente asiatiche perché erano soldati reclutati nelle repubbliche asiatiche dell’Unione Sovietica quindi in Turkmenistan, Tajikistan, Kazakistan [che] si rendono responsabili di rastrellamenti molto violenti, in alcune zone d’Italia per esempio nel Piacentino ne hanno conosciute di queste imprese, e ce ne sono molti che disertano e quindi ci sono moltissimi comunisti sovietici non russi che collaborano con i partigiani, e infatti di questi 5.000 che vi ho detto ce ne sono tanti che non sono di nazionalità russa pur essendo cittadini sovietici. Sono state fatte anche delle ricerche molto dettagliate su singole nazionalità e abbiamo alcune nazionalità che sono molto presenti, per esempio ci sono moltissimi azeri, abbiamo un discreto numero di ucraini.., ecco ci sono alcune nazionalità particolarmente rappresentate quindi circa la metà sono ex sovietici.

Poi un’altra componente molto significativa sono gli slavi del sud, gli jugoslavi. Perché ci sono tanti jugoslavi? Perché anche questi sono prigionieri di guerra, degli italiani che avevano come sapete invaso la Jugoslavia, i Balcani nel ‘41. Sono stati fatti prigionieri e portati in Italia, non solo militari in questo caso ma anche molti civili jugoslavi magari resistenti contro l’invasione italiana che sono stati arrestati e deportati in campi di internamento sul territorio italiano. Questi campi di internamento per gli slavi erano per lo più collocati nella fascia centrale del paese, nell’Italia del centro; dopo l’8 settembre in molti casi questi campi vengono abbandonati dalle autorità e i prigionieri scappano, e di nuovo siccome non era facile transitare dall’Italia centrale per tornare a casa, molti di questi prigionieri si uniscono alla Resistenza italiana.

Anche in questo caso per molti, intendo davvero molti cioè parliamo per gli jugoslavi di probabilmente almeno un migliaio di partigiani, in alcune località soprattutto dell’Italia centrale dove c’erano questi campi di internamento, ci sono dei capi partigiani molto importanti; e di nuovo in provincia di Piacenza, quindi siamo in questo caso non nell’Italia centrale ma al nord, in provincia di Piacenza ci sono tre comandanti partigiani che sono conosciuti, tre comandanti intendo non comandanti di distaccamento ma comandanti di brigata che sono conosciuti come l’Istriano lo Slavo e il Montenegrino. Tre e potremmo fare molti altri casi: tanti sovietici, tanti jugoslavi… Ci sono anche tanti angloamericani, anche questi prigionieri di guerra dell’Italia tra il ‘40 e il ‘43 l’Italia come sapete fa la guerra dalla parte della Germania, combatte gli alleati, e durante le campagne soprattutto in Africa fa tanti prigionieri che vengono portati in Italia in campi di prigionia per i soldati alleati. E anche qui, quanti sono? Sono più di 50.000 all’8 settembre del ‘43. Quindi quando poi anche qui dopo l’8 settembre in molti casi le autorità scappano o li lasciano liberi o fuggono e quindi si ritrovano sul territorio italiano, in questo caso per loro è più facile rientrare sotto il territorio occupato dagli angloamericani, gli angloamericani sono nel sud Italia quindi molti passano il fronte o a sud o a nord: in queste zone c’è un passaggio di ex prigionieri alleati significativo organizzato dalla Resistenza italiana.

Molti però non riescono a passare il fronte né a nord né a sud e quindi rimangono a fare la Resistenza con i partigiani. Non sono solo americani sono pochissimi perché di prigionieri americani ce ne son pochi, sono moltissimi inglesi e di nazionalità del Commonwealth, perché l’esercito inglese si portava dietro tantissime nazionalità delle ex colonie e infatti tra questi resistenti che fanno la Resistenza in Italia cosa troviamo? Troviamo australiani, neozelandesi, sudafricani quindi anche provenienze molto lontane che però si ritrovano a fare la guerra con gli inglesi e poi vengono fatti i prigionieri e portati in Italia e poi liberati partecipano alla Resistenza.

Ultima categoria significativa ma non l’ultima, è quella dei disertori della Wehrmacht. Ho già accennato a quelle di nazionalità sovietica ma ce ne sono appunto di tutte le nazionalità. […] I disertori della Wehrmacht durante la Resistenza italiana sono stati diverse migliaia, molti di loro semplicemente si sono arresi agli anglo-americani o si sono nascosti hanno abbandonato il fronte ma non sono passati dall’altra parte. Invece a noi interessava […] non solo chi ha disertato, ma a chi è passato dall’altra parte, ha non solo abbandonato le linee tedesche ma è passato a combattere contro i tedeschi. Scelta assolutamente pericolosissima sia perché la polizia militare tedesca era molto severa verso i disertori.

Il nostro libro parte dalla ricerca di Francesco Corniani sui tribunali militari tedeschi [“Sarete accolti con il massimo rispetto”: disertori dell’esercito tedesco in Italia (1943-1945). Università degli Studi di Trieste, XXX° Ciclo di Dottorato di Ricerca in Storia delle società, delle istituzioni e del pensiero. Dal medioevo all’età contemporanea, AA 2016-2017, scaricabile qui]; in tutto il contesto dell’Europa i tribunali militari tedeschi puniscono decine di migliaia [di disertori] cioè ci sono 20.000 condannati a morte per diserzione dalla polizia militare tedesca in tutta Europa quindi [disertare era] molto pericoloso perché si rischiava di essere ripresi e condannati, ma molto pericoloso anche perché si rischiava di essere ammazzati dai partigiani che chiaramente non avevano una immagine del tedesco particolarmente positiva e quindi temevano che questi disertori potessero essere spie, come in effetti in molti casi si sono dimostrate.

Quindi una scelta molto difficile quella della diserzione. Abbiamo fatto una distinzione tra chi era tedesco o austriaco, cioè apparteneva per motivi linguistici culturali prima ancora che ideologici al corpo centrale del Reich, per cui quindi abbandonare l’esercito non era come per un georgiano o un cecoslovacco, c’era un elemento anche di appartenenza di identità molto forte. Se la scelta di disertare e passare dall’altra parte per un soldato della Wehrmacht era molto pesante, per un soldato della Wehrmacht tedesco era ancora più pesante e per questo noi abbiamo fatto la scelta nel libro di dedicare alcuni profili biografici a alcune storie che ci sono sembrate particolarmente interessanti, soprattutto di soldati di nascita tedeschi o austriaci, cioè quelli per cui questa scelta è stata davvero una scelta difficile, una scelta pericolosa, una scelta complicata e quindi a maggior ragione dal nostro punto di vista di oggi una scelta da ricordare prima di tutto e anche da cui trarre delle indicazioni direi culturali morali personali.

[… È] un fenomeno minoritario perché dovete pensare che il Reich mobilita 8 milioni di soldati durante la seconda guerra mondiale quindi se pensiamo che i disertori nel senso più lato, cioè anche quelli che lasciano per poche settimane il fronte sono nell’ordine delle decine di migliaia la proporzione è chiaramente molto minoritaria però appunto per questo è ancora più significativo.

E poi abbiamo deciso di fare una mappatura per vedere, dato che non c’erano studi su questo fenomeno a livello nazionale, di cominciare a mappare il territorio, anche grazie alla Rete degli istituti per la Storia della Resistenza, per vedere quali storie si conoscevano sui territori perché invece nei territori si conoscevano storie di disertori tedeschi e quindi abbiamo cercato un po’ di mappare queste storie e di trovare anche questi elementi comuni-

Abbiamo capito innanzitutto quello che la maggior parte dei disertori della Wehrmacht in Italia non sono tedeschi, sono delle altre nazionalità della Wehrmacht. Poi abbiamo capito che la maggior parte di coloro che disertano non si unisce alla Resistenza. Ma in ogni caso quelli che si uniscono alla Resistenza sono un numero significativo, diciamo che possiamo realisticamente dire che sono circa 2-3.000 e il grande storico della Resistenza Roberto Battaglia il primo grande storico della Resistenza italiana nella seconda edizione del suo libro uscito per Einaudi, quella del ‘64 [Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1964] aveva introdotto un paragrafo dedicato alla Resistenza internazionale e aveva segnalato questa presenza di soldati tedeschi nei gruppi partigiani, e già con gli strumenti che erano a disposizione all’epoca era possibile vedere che questo fenomeno era molto largo, un po’ sparso su tutto il centro nord; poi non aveva avuto modo di approfondire e per 30 anni possiamo dire questo tema dei disertori è rimasto relegato alla memoria locale o a alcune pagine di letteratura, perché se voi leggete Meneghello o leggete Calvino i disertori li trovate; o leggete il bellissimo romanzo di Lenz che è uscito in italiano solo appunto pochi anni fa, “Il disertore” su cui c’è stato anche un film. Ecco…

Però la storiografia italiana questo tema dopo Battaglia era un po’ sacrificato. Quand’è che è tornato all’attenzione? È tornato, visto che siamo qui in Piemonte, è tornato con Nuto Revelli e con il libro”Il disperso di Marburg”, che non è un disertore, ma è un tedesco buono cioè, in questo caso, parliamo di un tedesco che solidarizza con la popolazione e quindi il tema “Non tutti i tedeschi durante la seconda guerra mondiale erano nemici” diventa un tema di attenzione. Da qui alcune ricerche pionieristiche sui disertori tedeschi locali per esempio nel Parmense Marco Minardi ha fatto un bel lavoro studiando i disertori tedeschi in quel contesto, e ci sono alcuni casi che erano già noti, il più famoso, che riprendiamo anche nel libro proprio perché era il caso più noto e quindi non potevamo eluderlo è il caso a cui Carlo Greppi ha poi dedicato il suo bel libro “Il buon tedesco”, è il caso di Rudolf Jacobs.

Jacobs è un sottufficiale della Marina tedesca che lavora per la costruzione delle difese marittime sulla costa ligure e che diserta per passare poi con i partigiani lunigiani e morire in un’azione durante la Resistenza. A Jacobs erano già stati dedicati alcuni saggi, un film, una lapide a Sarzana molto conosciuta e molto celebrata, e quindi era un personaggio che non potevamo dimenticare, però studiando questi vari casi abbiamo cercato di mappare quali fossero le modalità le motivazioni della diserzione del passaggio con i resistenti.

Abbiamo visto che intanto sono due i momenti di maggior frequenza dei casi di diserzione. Come era prevedibile uno è la primavera estate del ‘44, quando sembra che la Resistenza si ingrossi fino a diventare un esercito, e sembra che gli americani stiano per liberare tutto il paese avendo sfondato la linea Gustav e avendo liberato Roma. È in quella fase che c’è un primo gruppo di diserzione molto intenso. Il secondo è la primavera del ‘45 perché nel momento in cui la guerra si sta perdendo ci sono molte truppe tedesche che disertano, la distribuzione geografica abbiamo visto che è abbastanza uniforme, noi nel libro ci occupiamo di casi che vanno dalla Toscana in su ma ci sono anche casi al di sotto della linea toscana.

Le motivazioni sono state l’aspetto più interessante perché noi un po’ ingenuamente un po’ anche romanticamente partivamo dal presupposto che la maggior parte di questi disertori che sono passati con la Resistenza lo abbiano fatto per motivi ideali cioè che fossero antifascisti antinazisti e in effetti alcuni di questi erano come Jacobs, erano persone che già avevano un’esperienza politica in Germania con il socialismo, con l’anarchismo o con movimenti religiosi, e che avevano un’opposizione al nazismo; erano stati poi reclutati per la leva obbligatoria dal Reich ma appena ne avevano avuto l’occasione o avevano maturato appunto questa opposizione ideale hanno disertato.

Ma queste sono una minoranza. Ci sono in realtà motivazioni religiose, ci torneremo, essendo a Torre Pellice può essere interessante rilevarlo; c’erano motivazioni di carattere personale o familiare, per esempio ci sono molti disertori che decidono di disertare dopo che hanno perso la loro famiglia in Germania per i bombardamenti e ci sono, e sono la maggior parte, motivazioni di carattere del tutto personale: in molti casi si diserta perché si familiarizza con la popolazione italiana, si trova un amico italiano, o addirittura si trova una fidanzata italiana. Questo è un caso piuttosto frequente, abbiamo visto anche che in molti casi questa esperienza avviene in piccoli gruppi, non è solo una scelta individuale; quindi questi sono gli elementi un po’ caratterizzanti.

Poi abbiamo scelto delle storie molto diverse l’una dall’altra un po’ per coprire diciamo varie parti d’Italia un po’ per mostrare la diversità delle scelte e delle motivazioni e un po’ anche perché uno dei problemi fondamentali nello studio della diserzione è la mancanza di fonti perché come potete immaginare i disertori non vogliono lasciare traccia e quindi se ne sapeva poco, anche perché non è facile trovare documentazione su questi elementi, infatti nella memoria locale quasi dappertutto, anche qui come da noi, si ricordano un Fritz, un Hans però con un soprannome o un nome di battaglia si fa poco nella ricerca storica. Quindi abbiamo cercato i casi in cui c’era una documentazione un po’ più significativa.

Ne abbiamo trovati diversi qui adesso magari poi entriamo in qualche caso specifico però è stato interessante anche cercare di capire cosa è successo dopo a questi disertori perché alcuni muoiono come Jacobs durante la seconda guerra mondiale, ma altri sopravvivono alla guerra quindi era interessante capire cosa facevano: sono rimasti in Italia? Sono tornati nel loro paese? Che accoglienza hanno avuto nel loro paese? Come si è sviluppata la loro vita? Hanno ricordato l’esperienza della diserzione oppure no? Per gli storici è sempre bello seguire questi itinerari biografici.

Sicuramente questo è un campo appena avviato ci sono delle difficoltà ma c’è ancora molto che si può fare. Infatti sei mesi dopo il nostro libro è uscito quello di Carlo Greppi che è incentrato sulla biografia di Iacobs ma poi porta a tutta una serie di altre storie; noi stessi nel momento in cui abbiamo cominciato la ricerca coinvolgendo anche una decina di altri ricercatori abbiamo aperto anche una pagina facebook su cui ci sono arrivate informazioni di altri casi locali, quindi sicuramente c’è spazio per molte altre ricostruzioni biografiche certamente, come spesso accade allo storico, bisogna accettare il fatto che non tutte le piste sono percorribili, alcune piste si interrompono e non è più possibile riprenderle, come vi dicevo abbiamo scelto alcuni casi in cui siamo riusciti a indagare la vita di queste persone prima e magari anche dopo la seconda guerra mondiale, ma in alcuni casi le tracce invece si perdono. Il caso di Gino, nome di battaglia di un disertore nella bassa Toscana è una storia incredibile perché diserta in un posto, va a fare il partigiano in un altro, rischia di essere ucciso in una strage di civili italiani fatta dai suoi ex commilitoni, sopravvive, unico sopravvissuto alla strage quindi poi unico testimone nel processo del dopoguerra [riferimento all’eccidio di Maiano Lavacchio del 22 marzo 1944]. Ecco, nel suo caso sappiamo che torna in Germania ma dopo che è tornato in Germania se ne sono perse le tracce.

Quindi c’è ancora molto margine e credo che sia molto importante recuperare i casi locali, continuare ad indagare come ha fatto Francesco [Corniani] le fonti tedesche che sicuramente possono dirci ancora molto e recuperare questo filone che dicevo essere proprio molto germinale nella storiografia europea non solo italiana della Resistenza come fenomeno transnazionale.

Gli anni dell’occupazione della seconda guerra mondiale sono anni di spostamenti di popolazione molto significativi, spostamenti forzati purtroppo come le deportazioni imposte dal Reich e dai suoi alleati ma anche spostamenti forzati dovuti alla guerra e anche spostamenti volontari per fuggire dalla guerra o per recarsi a combattere viceversa per alcune cause. Su questo si è cominciato relativamente da poco a lavorare quindi c’è ancora secondo me molto margine, sicuramente di storie come le dodici che abbiamo raccontato, ce ne sono almeno altrettante che già potremmo ricostruire oggi..

Insomma, come abbiamo visto il filone è aperto, noi volevamo offrire una prima mappatura, una prima valutazione di come mai queste ricerche fino adesso non si fossero fatte e indicare alcune specificità che a noi sembravano interessanti.

[…]

Come dicevo la storiografia italiana ha avuto un interesse precoce con Battaglia, e poi per molti anni ha lasciato perdere la questione, però sorprendentemente come dicevo il disertore tedesco compare nella cultura popolare, nella letteratura ma anche nel cinema. Per esempio il film di Quentin Tarantino “Bastardi senza Gloria”: è ispirato a un b-movie italiano degli anni ‘70 come spesso accade nel caso di Tarantino [Quel maledetto treno blindato, di Enzo G. Castellari, 1977], il cui protagonista era disertore. E potremmo fare molti altri esempi; in realtà il disertore tedesco compare nella cultura popolare a segnalare il fatto che la memoria pubblica c’è, nella storiografia c’è voluto più tempo per i motivi che dicevamo, c’è voluto più tempo anche perché dappertutto e anche in Germania verso la diserzione c’è uno stigma, c’è stato e continua a esserci uno stigma forte verso il disertore della Wehrmacht ma anche della Bundeswehr, dell’esercito federale, un forte stigma per cui nonostante alcuni casi […] nel dibattito pubblico tedesco il disertore rimane un esempio negativo. Per questo molti non ricordano volentieri quello che hanno fatto, e nel caso tedesco diciamo che il salto di qualità avviene negli anni ‘70 con i movimenti pacifisti che riabilitano la figura dei disertori valutando positivamente la scelta di disertare in un contesto di guerra totale o addirittura di regime totalitari.

Per esempio è molto importante una piccola associazione [riferimento alla Associazione vittime della giustizia militare tedesca, fondata nel 1990 da Ludwig Baumann] che nasce a Brema proprio in quella fase, fondata da uno di questi disertori che crea questa associazione contro le vittime della giustizia militare nazista proprio per rivendicare il valore pubblico della scelta della diserzione e attraverso un’azione molto costante continua di mobilitazione civile preme sulle istituzioni tedesche e istituzioni tedesche che a partire dagli anni ‘90 hanno prima parzialmente poi totalmente riabilitato i disertori, fino poi a arrivare negli ultimi dieci anni addirittura ad una loro mobilitazione. Per esempio ci sono in Germania oggi una decina di monumenti al disertore o a disertori una cosa che sarebbe stata inconcepibile fino a venti anni fa quindi la memoria pubblica ha avuto un andamento effettivamente molto particolare che abbiamo brevemente descritto nella nostra introduzione sia per quanto riguarda la dimensione tedesca sia per quanto riguarda il caso italiano.

[…]

Numericamente sono mosche bianche nel senso che quantitativamente sono una percentuale molto bassa intorno al 1 per 1.000 però se noi pensiamo a qual era il contesto, quali erano i rischi che correvano, il ragionamento si rovescia, sono molti di più di quello che ci saremmo attesi, quindi è chiaro che tedesco non vuol dire nazista, che alla base di questo nostro lavoro c’è il superamento di alcune semplificazioni, il mito del cattivo tedesco e del bravo italiano.

Poi però le cose si complicano: per esempio è vero che non devo dire le stragi compiute dai tedeschi ma devo dire le stragi compiute dai nazisti, ma al tempo stesso l’approfondimento storico ci dice un’altra cosa che complica il quadro, le stragi civili compiute dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale non sono state compiute solo dai corpi ideologizzati, cioè dalle SS, ma sono state compiute nella maggioranza dei casi e anche in alcuni casi particolarmente pesanti, penso alla strage di Monchio vicino a casa mia, 136 civili uccisi da soldati della Wehrmacht, non dai corpi ideologizzati ma da uomini comuni, padri di famiglia; non erano mostri demoniaci, ma all’interno di un sistema politico ideologico quale era il Reich durante la seconda guerra mondiale chiunque in certe condizioni può arrivare a diventare un carnefice, quindi anche questo è un elemento che supera i luoghi comuni della rassicurazione.

[…]

Tra le motivazioni di diserzione ci sono quelle politiche, ci sono casi di persone che erano militanti, socialisti, anarchici comunisti in patria prima della guerra, ma c’è un’altra motivazione, quella religiosa.

Abbiamo scelto di raccontare la storia di Werner Goll che è un disertore tedesco nella zona del Genovese, una storia recuperata dal figlio che si è appassionato alla vicenda del padre.

Goll è un pastore della Chiesa Confessante, la chiesa di Dietrich Bonhoeffer, in gran parte antinazista. È interessate che la sua scelta di diserzione sia maturata a contatto e in dialogo con un prete cattolico locale, per cui quindi l’elemento religioso e il dialogo religioso è un elemento significativo [l’intera storia del pastore Goll raccontata dal figlio è riportata in una intervista sul sito ANPI Sezioni di Germania, qui].

La Resistenza è un fenomeno multinazionale e multiculturale e anche un fenomeno multireligioso. È chiaro che in un paese come l’Italia a grande maggioranza cattolico c’è stata grande attenzione a rapporto tra la chiesa cattolica e il regime fascista e all’atteggiamento dei cattolici durante la Resistenza. Devo dire che negli ultimi anni c’è una grande attenzione anche alla Resistenza di altre confessioni religiose, qui voi avete l’esempio valdese ed è evidente a tutti se non altro nel rapporto tra i pochi che sono i valdesi e i tanti che sono i resistenti [valdesi]. Ci sono resistenti di altre declinazioni del cristianesimo, altre confessioni protestanti: penso un grande partigiano che poi è stato storico, Giorgio Spini, che era metodista.

Ma per esempio, prima non l’ho citato, un altro campo di ricerca nuovo che vi suggerisco [è trattato in] un bellissimo libro di Matteo Petracci che si intitola “Partigiani d’Oltremare”. Anche questo libro è nato da una foto, i nipoti che trovano la foto del nonno partigiano in un gruppo di partigiani, ci sono 15 partigiani di cui tre neri: cosa ci fanno tre neri in un gruppo di partigiani delle Marche? Da lì parte un’indagine e si scopre una storia bellissima, o bruttissima, a seconda: il regime porta in Italia per la Mostra delle Terre d’Oltremare che è aperta a Napoli nel maggio del ‘40 dei sudditi coloniali da usare come figuranti in una sorta di rappresentazione di quello che era un villaggio somalo o etiope, porta una cinquantina di sudditi scelti tra l’altro tra quelli non di classi umili ma quelli che sapevano l’italiano e porta queste cinquanta persone con annesse donne da utilizzare come prostitute a Napoli; questo a maggio del ‘40. Però nel giugno del ‘40 l’Italia entra in guerra quindi la mostra viene sospesa e queste persone vengono portati in una villa delle Marche fino a quel momento utilizzata per l’internamento civile femminile. Tre [di loro] scappano e si uniscono alle bande partigiane, attaccano la villa e liberano gli altri; alcuni entrano nel gruppo partigiano. alcuni muoiono nella Resistenza. Anche lì c’è un fenomeno religioso molto interessante, c’erano alcuni cristiani copti, gli ortodossi copti egiziani, e in quel gruppo quelli di religione islamica, ci sono alcuni dei musulmani e c’è il prete dei partigiani, il cappellano cattolico dei partigiani che si preoccupa di fare arrivare carne per loro. [vedi qui]

Un altro elemento molto interessante che sta emergendo proprio in questi mesi è il tema della Resistenza ebraica. C’è stata grande attenzione per gli ebrei come vittime delle leggi razziali e poi della della Shoah italiana, fenomeno ovviamente importante e anche traumatico, però questo ha in qualche modo fatto sì che gli ebrei italiani venissero rappresentati come vittime della seconda guerra mondiale, perdendo il fatto che ci sono anche molti ebrei italiani protagonisti della Resistenza, qui in Piemonte sicuramente ma non solo, e quindi ci sono delle ricerche in corso che hanno mostrato per esempio che sono più di mille i ebrei partigiani riconosciuti quindi percentualmente anche in questo caso come nel caso dei valdesi una percentuale superiore alla percentuale della composizione generale della popolazione.

Questo non vuol dire che la religione in quanto tale favorisce l’antifascismo, ma ci sollecita delle riflessioni più articolate.

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Questo libro a cui tu fai riferimento “Il bracciale di sterline” [Matteo Incerti e Valentina Ruozi, Il bracciale di sterline, ed. Corsiero] è la storia di una gruppo di resistenti multinazionali. Non ci sono solo esperienze individuali, come dicevo prima, ma ci sono gruppi di resistenti che mostrano quanto la Resistenza fosse un fenomeno multinazionale. Ci sono esempi eclatanti: il battaglione alleato che è il protagonista di questo libro è una formazione creata così, mettendo insieme dei paracadutisti britannici, un gruppo di partigiani scelti italiani, un battaglione di ex prigionieri sovietici e alcuni disertori tedeschi.

Un altro caso più vicino a voi. nelle langhe: l’Islafran. Cos’è? È un distaccamento partigiano composto da italiani, slavi e francesi con un comandante istriano [qui Ezio Zubbini, autore del libro Islafran. Storia di una formazione partigiana internazionale nelle langhe. ilmiolibro self publishing, 2015 ne raccontra la storia] la cui storia è molto interessante.

Ma per me che vengo da Reggio Emilia: il simbolo della Resistenza di Reggio Emilia sono i fratelli Cervi, che sono stati arrestati nel novembre del ‘43. La loro banda, la banda che nasce a casa Cervi […] è composta tra due sudafricani, due sovietici, un francese un calabrese…

L’autore di questo libro [ Il bracciale di sterline], Matteo Incerti, è morto a 50 anni la settimana scorsa. Era un personaggio molto particolare, non era uno storico di professione, era un giornalista, era negli ultimi anni addetto stampa del Movimento 5 Stelle al Senato e aveva una grande passione per la storia, in particolare per queste storie un po’ particolari, quindi aveva cominciato a studiare questo battaglione alleato scoprendo la storia del cornamusiere, il racconto mitologico di questo attacco al comando tedesco di Botteghe al suono della cornamusa, e aveva ritrovato il suonatore di cornamusa. Lui andava a cercare queste storie e a ritrovare le persone. Poi aveva fatto un altro libro su di recente su un soldato americano che aveva portato con sé la macchina fotografica e aveva fotografato un sacco di bambini: aveva rimesso insieme il soldato novantenne e i bambini. Oppure ancora ha scritto un libro sui Pellerossa arruolati nell’esercito americano, la V Armata, che avevano partecipato alla seconda guerra mondiale e Matteo è andato finalmente coronando un suo sogno, presentare questo libro in Canada presso una di queste tribù di Pellerossa e ha avuto un infarto mentre era là, il suo funerale in Australia è stato fatto ieri l’altro…

Ecco quindi c’è una persona di grande passione per la ricerca di questi lati umani diciamo della seconda guerra mondiale che insomma un po’ si perdono delle volte nella grande storia e che invece è giusto recuperare. In quella battaglia, la cosiddetta battaglia delle Botteghe, l’assalto a Villa Rossi e Villa Calvi, sono coinvolti tre disertori, due austriaci e un tedesco di cui trovate la storia nel libro. Perché? Perché quel posto lì paradossalmente è un posto particolarmente significativo per la diserzione perché quell’assalto avviene nella primavera del 1945 ma nove mesi prima lì queste sono due ville in un paese nella collina reggiana, i tedeschi avevano requisito le ville e ci avevano fatto una base, in particolare una stazione telegrafica e un gruppo dei telegrafisti che arrivano lì diventano collaboratori dei partigiani, non hanno ancora disertato, trattano con i partigiani e forniscono loro informazioni fin dalla primavera del 1944. Proprio quando una sera si sono accordati per rubare gli apparecchi telegrafici e passarli ai partigiani, arriva un attacco inglese, un attacco aereo che non era previsto, vengono scoperti questi cinque soldati, in questo caso non erano della Wehrmacht ma delle Luftwaffe, che stanno aiutando i partigiani, vengono uccisi tutti e cinque, i due sotto ufficiali vengono processati gli altri vengono uccisi. Tra questi cinque, in particolare c’è la storia di Hans Schmidt, il sottoufficiale: poi la sua famiglia ha stabilito un legame con il territorio reggiano, c’è stato un gemellaggio tra quel comune e il comune da cui proveniva Schmidt. I tre che sei mesi dopo partecipano all’attacco a Botteghe.., tra questi c’è la storia di George Rinald che pure cito nel libro che è molto bella: Reinhardt è un tedesco che viene mandato a fare la guerra, viene ferito, mandato a fare la convalescenza a Reggio Emilia, si invaghisce di una ragazza che vende il pane in fianco all’ospedale militare che lo convince a disertare e lui durante l’attività partigiana fa un appostamento uno dei tanti che facevano sulle strade che vanno verso l’Appennino e per un puro caso bloccano la macchina di un importante gerarca nazista e il disertore George Rinald uccide durante la sparatoria l’ufficiale nazista, è abbastanza significativo. Rinald dopo la guerra è rimasto a Reggio Emilia, ha avuto due figlie una purtroppo è scomparsa anche lei l’anno scorso ma l’altra è viva e quindi anche per lei il libro è stato comunque il nostro libro è stato utile perché ha inserito la vicenda di suo padre dentro un contesto largo.

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Ad Albinea, i cinque di Albinea, i cinque soldati uccisi erano sepolti nel cimitero del piccolo cimitero della chiesa vecchia di Albinea, e la gente li ricordava e andava a mettere le corone di fiori sulla loro torre. Negli anni 60 la Repubblica federale tedesca decide che i soldati tedeschi morti in Italia, che erano tantissimi perché la campagna alleata provoca tantissimi morti, parliamo di centinaia di migliaia, allora a un certo punto l’organismo tedesco che si occupa delle sepolture dei militari all’estero decide di prendere i soldati tedeschi che sono sepolti in tutti i cimiteri in tutta Italia e concentrarli in alcuni grandi sacrari, quindi edifica alcuni cimiteri militari molto grandi, il più grande è quello della Futa, sul passo della Futa tra Bologna e Firenze, ce n’è un altro molto grande a Costermano sul lago di Garda […] lì succede una cosa molto interessante cioè nel cimitero in cui vengono concentrati i soldati tedeschi chi c’è? Ci sono insieme i gerarchi responsabili delle stragi di civili e i disertori in Italia, così siccome il movimento pacifista è stato molto importante per la riabilitazione dei disertori in Germania ecco anche in Italia è successo qualcosa di simile più avanti, negli anni 2000 tra gli anni 90 e il 2000 il movimento pacifista italiano ha cominciato a fare una serie di proteste perché venissero tolti dai registri del cimitero di Costermano i responsabili di alcune grandi stragi quindi gli ufficiali nazisti che avevano ordinato alcune grandi stragi. Questo è stato un processo lungo è costato per esempio il posto a un console negli anni 90; questo console nel suo discorso ufficiale accoglie la proposta dei movimenti pacifisti italiani e denuncia la presenza nel cimitero, nell’albo d’oro del cimitero nell’elenco del cimitero di queste figure e perde il posto e negli anni inizio anni 2000 come dicevamo la sensibilità in Germania cambia cambia anche l’atteggiamento dell’organizzazione ufficiale che gestisce i cimiteri e quindi non solo oggi sono stati effettivamente tolti i nomi di questi gerarchi nazisti dall’albo d’oro del cimitero ma addirittura nella piccola sala espositiva che c’è all’inizio dell’ingresso del cimitero di Costermano sono presentate una dozzina di biografie di coloro che sono sepolti lì e ci sono due disertori incredibilmente, quindi tra la grande galassia dell’esercito tedesco rappresentata lì vengono pubblicamente esposte i casi, i due disertori tra cui uno dei cinque di Albinea che sono sepolti lì, adesso sono traslati lì e quindi anche questo tema ci ha molto sollecitato insomma riguardo a come la memoria pubblica si costruisce attraverso passaggi apparentemente strani decisamente strani.

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Io ho fatto il direttore del museo della Resistenza di Montefiorino, dove ci fu una repubblica partigiana simile a quelle che ci sono state anche qui nell’estate del 1944. C’era un battaglione russo che era considerato il gruppo scelto dal punto di vista militare, perché mentre la Resistenza italiana era composta dalla maggior parte della gente che la guerra la sapeva fare, questi russi erano di solito doppiamente addestrati, sia dall’Unione Sovietica che dai tedeschi, quindi militarmente erano veramente molto forti. Il comandante di questo gruppo si chiamava Vladimir Pereladov che è tornato più volte a Montefiorino e ha testimoniato più volte dell’esperienza a Montefiorino. Insieme con loro, con la banda Cervi, c’era Vladimir Talasov, che poi ha scritto le sue memorie tradotte anche in italiano.

C’era anche un altro comandante partigiano che parte lì con i Cervi e poi va a Modena, che si chiamava Viktor Pigorov, nome di battaglia Modena. Pigorov ha una storia molto interessante che ci spiega molto anche delle problematiche riguardante i partigiani sovietici, perché il problema dei partigiani sovietici era tornare a casa, perché Stalin, con una norma assolutamente incredibile, fissa che sostanzialmente tutti i prigionieri di guerra sono da considerare traditori, per cui solo gli altri ufficiali vengono recuperati come glorie nazionali. La maggior parte degli ex militari sovietici, fatti prigionieri eventualmente poi resistenti, rischia di finire in un campo di internamento in Unione Sovietica, dopo essere passati tra l’altro in molti casi dai campi di internamento alleati, in quanto sovietici, quindi delle vicende un po’ problematiche.

Questo Pigorov, per esempio, è molto interessante, è un giovane russo molto valido militarmente, che fa il comandante di un distaccamento molto significativo, ripeto, parte con i Cervi, poi va alla Repubblica di Montefiorino, al centro della Resistenza. E c’è una pagina molto divertente nella sua drammaticità, finita la guerra, lì da noi c’era anche questo prete partigiano, uno strano personaggio, un prete partigiano armato, addestrato dagli inglesi, che fa il capo partigiano nell’Appellino reggiano, e che ha scritto un diario molto interessante, e c’è Pigorov che alla fine va da questo prete e gli dice, adesso la banalizzo un po’ però è significativo, guarda, io innanzitutto non sono comunista, qui hanno saputo che ero russo, ma hanno fatto tutti la festa dicendo che ero comunista, quindi ho fatto finta di essere comunista, ho fatto per un anno e mezzo il capo comunista, però io non sono comunista, quindi intanto voglio venire alla sua funzione religiosa, e poi lui cosa fa? Anche lui aveva conosciuto una staffetta reggiana, e si è accompagnato con questa staffetta, e scappa in Sud America con la staffetta reggiana, quindi i suoi discendenti sono lì. Mi incuriosiva molto questo, che per due anni ha fatto la Resistenza, passando come grande capo comunista, e invece non era comunista, per dire, no? Ci sono dei cortocircuiti in questi partigiani sovietici, che sono veramente tanti, molto interessanti, prima non abbiamo avuto modo, ma ci sono partigiani indiani, ci sono partigiani di tutti i paesi dell’est Europa, sudamericani, io prima non ho citato, ma sono dei casi incredibili per stare qui in queste zone, chi di voi ha letto il diario di Emanuele Artom, o le memorie di Antonio Giolitti, per dire due partigiani famosi, piemontesi, tutti e due ricordano… ne sono rimasto molto colpito forse anche perché loro non erano dei combattenti raccontano di questa figura di Zama, nome di battaglia, questo capo partigiano, comandante partigiano Zama, che definiremmo un colpista: era uno di quelli che quando c’era da fare un’azione totalmente audace, la si faceva fare a quelli perché non avevano scrupoli, non avevano scrupoli di fronte a niente, e sia Artom che Giolitti raccontano di questo Zama che faceva delle cose che a loro sembravano… una volta fa un’irruzione da solo, in un comando tedesco, ne uccide non so quanti, un’altra volta uccide il suo cavallo a bastonate. Questo Zama, noi a 70 anni di distanza non sappiamo ancora dire né come si chiama né di che paese fosse, Artom racconta nel diario che nasce in Sud America ma non è ben chiaro se è nato in Colombia o in Ecuador, non è ancora ben chiaro come si chiamasse, se si chiamasse Zamacois, il suo cognome figura in 3 o 4 modi, nasce in Sud America, finisce a fare il paracadutista con gli inglesi, la legione straniera con i francesi, una vita da film e poi arriva a fare il partigiano tramite gli inglesi qua in questa zona e poi di nuovo dopo che è finita la guerra se ne perdono le tracce, al processo, che ha un processo nel dopoguerra, figura con un altro nome ancora.

Ci sono dei personaggi molto particolari dentro la Resistenza italiana, questo Zama per esempio è un caso eclatante.

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C’è una banca dati di tutti i partigiani riconosciuti dalle commissioni del dopoguerra, sul sito del Ministero della cultura, si chiama Partigiani d’Italia, ci sono i cartellini di oltre 700.000 richiedenti di riconoscimento che poi è stato concesso a circa 450.000 e quindi andando a indagare sulla base della nazionalità già solo di partigiani riconosciuti per esempio in Piemonte ce ne sono almeno 800 che non sono cittadini italiani, ripeto parlo solo dei riconosciuti che sono molti meno di quelli realmente esistenti perché i partigiani stranieri in molti casi o non avevano gli strumenti linguistici o tornano a casa e quindi non chiedono riconoscimento come partigiani italiani quindi è da pensare che fossero molti di più.

Cito solo due episodi visto che di questo si parlava Iara Meloni che era co-curatrice di questo libro, di recente ha pubblicato un bellissimo articolo, ha scoperto una signora reggiana di 100 anni ancora vivente che ha sposato un prigioniero sovietico dei tedeschi che l’ha conosciuto perché tutti i giorni lei abitava di fianco alla chiesa e questi erano stati internati nella canonica della chiesa quindi si incontravano tutti i giorni e poi l’ha fatto scappare, ha fatto il partigiano è stato vicecomandante e dopo la guerra si sono sposati lui è rimasto a Reggio Emilia, hanno fatto un figlio e lui è morto precocemente, questa storia non se la ricordava nessuno.

E se volete un altro caso, ho consigliato prima il libro di Carlo Greppi uscito per Einaudi, lì c’è la storia di Rudolf Jacobs che è molto nota; ma c’è la storia del suo attendente, che aveva disertato con lui di cui si sapeva solo il soprannome e tra l’altro si confondeva spesso però nessuno sapeva niente, Carlo in questa ricerca cerca di illuminare un po’ la vicenda di questo attendente non ci riesce, nel senso che non arriva neanche lui a conclusioni definitive però insegue un po’ la storia di questo attendente come un buon libro giallo quindi può essere interessante .

 

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