Nel febbraio 1992 La Beidana, rivista di cultura e storia nelle valli valdesi edita dalla Fondazione Centro Culturale Valdese, ha dedicato il suo numero 16 agli ebrei che durante la guerra di Liberazione hanno trovato rifugio in Val Pellice, e riporta tre testimonianze di “ebrei di Rorà”: quella di Adele Bohm Terracini, quella di Franca Debenedetti Loewenlhal e quella di Carmela Mayo Levi.
“Testimonianze – scrive la rivista – [che] ci riportano alle vicende del ’43-’45; tre narrazioni diverse ma ugualmente significative per la compostezza e la ricchezza di valori civili, per l’impressionistica capacità di far rivivere un momento storico (e psicologico) cosi particolare e tragico, o ancora per l’interesse che riveste la ricostruzione di una formazione umana e di una presa di coscienza politica. […] Gli accenni alla necessità di procurarsi documenti falsi nelle condizioni di obbligata clandestinità degli ebrei rifugiati, riportano alla nostra attenzione la rete di appoggio e di difesa che l’antifascismo locale riusci a costruire (come non ricordare – a questo proposito – il ruolo fondamentale di Frida Malan e quello di un coraggioso impiegato del Comune di Torre Pellice, Silvio Rivoir, che per questo venne deportato in Germania?).”
Di seguito la testimonianza di Adele Bohm Terracini.
In quella casa lassù c’è il signor Levi
Testimonianza di Adele Bohm Terracini
(Questa testimonianza è stata raccolta il 6/4/1990 a Torino da Daniela Fantino. Per rendere più scorrevole la lettura di questo testo sono stati eliminati gli interventi dell’intervistatrice. Il titolo è redazionale.)Mi ricordo questo fatto strano. Mio fratello era prima impiegato a Torino all’azienda del gas; poi l’hanno mandato via perché non potevano tenerlo, era proibito anche tra i parastatali, per le leggi antiebraiche. Allora è andato a Milano, dove stavano i suoi suoceri; ha portato la sua famiglia, poi ha avuto un lavoro ed è andato sul Lago Maggiore.
Là a un certo punto c’è stata l’invasione tedesca e i tedeschi hanno messo l’obbligo di consegnare tutte le armi. Allora lui è andato a consegnare una rivoltella che mio padre gli aveva data quando lavorava alla costruzione della nuova fabbrica del gas di Firenze e doveva lavorare di notte. I tedeschi volevano che si consegnassero tutte le armi e lui si era messo in coda appunto per far questo, quando hanno cominciato a dire: «Hanno buttato nel lago degli ebrei». Erano i signori Ovazza, non so se ammazzati prima o buttati nel lago e poi annegati. Questa era stata una «fantasia» fatta dai tedeschi, si erano esaltati a fare questa cosa, avendo saputo che erano israeliti. Allora mio fratello consegnò le armi e immediatamente dopo se ne andò a casa, dicendo alla moglie: «Prepariamo i sacchi da montagna e le biciclette». Poi erano andati a parlare con dei contrabbandieri che conoscevano già per il caso di pericolo e quelli li portarono a Nord del Lago Maggiore, in territorio svizzero, in cui entrarono senza difficol1à.
Ma quello che è per me curioso è che, appena arrivato in Svizzera, lui mi mandò una cartolina, come aveva mandato anche ai miei genitori. Aveva scritto: «Se io vado, venite anche voi». ln Svizzera c’era già l’altro mio fratello, perché era già in età di andare all’università e, non potendo in Italia, era andato in Svizzera per studiare. Comunque, prima ancora che mi arrivasse la cartolina che lui mi aveva mandato, a Torre Pellice mi dissero: «Arrigo Bohm è arrivato sano e salvo in Svizzera con la sua famiglia».
lo allora ero a Luserna S. Giovanni, eravamo andati lì per i bombardamenti; dall’Inghilterra continuavano a dire alla radio di mandare via le donne e i bambini perché avrebbero bombardato le città. Già prima mio marito aveva pensato di andare in un albergo, aveva prenotato per il caso che ci fossero i bombardamenti. Però, il giorno in cui siamo andati a ·Luserna S. Giovanni (quella notte c’era stato un bombardamento piuttosto violento e ce ne eravamo andati con la nostra bambina che allora aveva due anni), l’albergo era stato riempito da tutt’altra gente, non c’era più posto per noi. Allora l’albergatore ci fece dare una camera in una famiglia per una notte; avevo il letto contro il muro; ho messo la bambina contro il muro perché non cadesse, il letto era piccolo; invece a mio marito avevano dato uno sgabuzzino delle scope dove ha cercato di dormire. Poi, la mattina dopo, il padrone dell’albergo si è messo in giro a cercare e ha trovato vicino al soprapassaggio della ferrovia, a Luserna, una cascina dove il padrone aveva preparato un alloggetto per il caso dovesse sposarsi; poi non si era mai deciso e questo alloggetto era libero. Allora abbiamo preso quello e siamo stati li fino a quando il pericolo per noi è diventalo più grave e bisognava cambiare nome, andare via, perché Il tutti un po’ lo sapevano cosa eravamo.
Il nostro padrone di casa ci disse: «Ma io ho un cugino che sta a Rorà e allora andate su a chiedere se per caso vi ospita». Allora siamo andati, abbiamo cambiato alloggio. Da Terracini mio marito aveva corretto il cognome in Ferraguti, correggendo la T in F, la c l’ha fatta diventare g e una delle gambe della n l’ha tirata su e ha fatto la t; insomma si è arrangiato; abbiamo dovuto correggere i documenti, i nomi propri li ha lasciati. Da allora abbiamo comincialo a chiamarci Ferraguti. Ci è poi successo di una signora che un giorno mi ha chiesto, senza saper niente: «Siete parenti dei Ferraguti di Luserna?» «No, no, noi siamo un altro ramo», le ho risposto. non sapevamo che ci fossero altri con lo stesso nome! Allora siamo andati a chiedere a quest’uomo che si chiamava Pavarin, la famiglia Pavarin di Rorà; la loro casa si chiamava la Vernarea, prima di arrivare a Rorà, vicino alla strada. Allora siamo arrivati a chiedere e c’era un padre anziano, il quale abitualmente dormiva in una camera con un letto da una piazza e mezza, e poi c’era un figlio scapolo e un figlio sposato con la moglie e dei bambini e anche la nonna; quindi una famiglia completa. Allora abbiamo chiesto e quello ha detto, «Potrei cedere la mia camera e andare a dormire col figlio», che aveva anche lui un letto da una piazza e mezza: due omoni però! Mettersi in un letto da una piazza e mezza! Era un bel sacrificio! Ha detto: «Beh, per una quindicina di giorni . .», e ci ha tenuti quasi due anni! Un bel coraggio. E lo sapevano che eravamo ebrei, lo avevamo anche detto. Quando siamo arrivati hanno detto: «In quella casa lassù, in quella villetta, c’è il signor Levi». E noi abbiamo detto: «Che bella tranquillità!» (che tutti sappiano che si chiama Levi).
Era una combinazione questa. Questo signor Levi era stato in viaggio di nozze a Torre Pellice, in un albergo dove non aveva ancora paura e aveva messo il suo nome vero. Allora lì c’era una cameriera che stava a Rorà e quando quelli sono dovuti scappare si sono rivolti a lei e hanno trovato una villetta dove mettersi e lei aveva detto che quello era il signor Levi. Successivamente lui aveva trovato per la strada una carta d’identità che era di un carabiniere, con un nome tutto diverso naturalmente; allora lui ha cambiato la fotografia e si è tenuto la carta d’identità e anche la moglie figurava con lo stesso nome. Con la Val Pellice c’era questo vantaggio, che essendo gente che è stata in passato molto perseguitata era più difficile che capitasse casualmente che qualcuno dicesse: «Quello è ebreo» di fronte a gente che non doveva saperlo, perché erano più attenti, sulla difensiva, anche per noi; perché in altri posti poteva succedere per cretineria, non per cattiveria, di dirlo davanti ai fascisti; invece lì essendo gente che era stata perseguitata erano ben più sensibili di fronte a queste cose. Difatti c’è andata bene. I tedeschi sono venuti spesso, facevano rastrellamenti e dicevano che si sarebbero fermati tre giorni; poi alla sera ripartivano perché avevano paura dei partigiani.
Noi li eravamo ospiti, nei primi tempi anche per mangiare; poi ci hanno dato una cucina adiacente alla nostra cameretta, un piccolo locale che poteva servire da cucina e anche una specie di soffitta dove potevamo mettere gli oggetti che non ci servivano. Dopo un certo periodo in cui mangiavamo con i Pavarin, poi per noi non era tanto comodo, perché era inverno e loro mangiavano alle cinque, poi dopo stavano su facendo la serata nella stalla ed eravamo invitati anche noi, a lavorare un po’, a chiacchierare. Però, mangiando così presto, dopo veniva appetito. Quando poi ci hanno dMo In stanzetta con la cucina, facevamo da mangiare sulla stufetta e allora andava un po’ meglio. Non è che fossimo li gratis, perché avevano chiesto quello che allora era lo quota di un albergo, non tanto alta, per i tempi era una cosa giusta; comunque è andata bene perché loro sono stati anche onesti, non hanno chiesto mai di più, potevano anche aumentare, dato che avevamo detto per quindici giorni, poi invece …
Noi non eravamo tanto poveri perché quando ci eravamo sposati mio padre ci aveva dato delle azioni per una cifra che allora era abbastanza alta; allora mio marito ogni tanto scendeva a Torre Pellice e lì si vedeva con un amico che gli vendeva questa roba e così tiravamo avanti. Per mezzo di questo amico riuscivamo ad avere dei soldi, lavorare no perché mio marito era scultore, era un artista, non poteva fare tanto … Faceva anche dei disegni e ne ha fatti anche parecchi di partigiani che ho conservato; però questi disegni quando sapevamo che c’era un rastrellamento non potevamo tenerli in casa; allora li mettevamo dentro un muretto dove c’erano dei sassi che si potevano togliere e dietro c’era un po’ di posto.
I tedeschi sono venuti parecchie volte. Prima sono arrivati i fascisti, mi sembra, e mio marito diceva: «Meglio che togliamo la biancheria stesa lì fuori, che non credano che sia un segnale» e stava togliendola quando gli hanno sparato e bucato il soffitto del balcone; per fortuna non l’hanno preso, poi naturalmente si è subito rifugiato incamera; poi ci hanno dimenticati, infatti non han mai chiesto di noi nel tempo che eravamo lassù. Altre volle invece sono venuti dei tedeschi; li vedevamo venire su, da sotto, e tutti erano armati fino ai denti, con bombe da tutte le parti. Hanno spalancato la porta di colpo, venendo direttamente da noi, eravamo come in una piccola dipendenza della cascina e e’ era modo di entrare direttamente venendo dalla strada. lo non ero li, ero andata a prendere la mine- stra per la bambina e per mio marito e gliela stavo portando giù; in quel momento ero però già un po’ provata, era il secondo giorno di rastrellamento; non mi scuotevo, ero ferma. Allora la nuora del padrone di casa mi ha detto: «Ma vada!» e allora mi sono scrollala, finalmente, dal posto dove stavo e sono andata nella camera pochi secondi dopo che erano entrati i due tedeschi, i quali hanno subito detto a mio marito: «Document!» e lui naturalmente ha fatto vedere quello che aveva; io poi qualche parola di tedesco l’avevo studiata, per cui si sono subito messi a parlare in fretta in fretta; allora ho dello: «Adagio, se no non capisco’». Però hanno subito avuto un senso di simpatia per il fatto che parlavo un po’ di tedesco ed è andata abbastanza bene quella volta. Hanno poi girato tutta la cascina. La figlia del padrone aveva dello a mio marito: «Vada a mettersi via!», ma mio marito non ha voluto, è rimasto in camera. Difatti sono andati nel fienile e con le armi cercavano se c’era della gente in mezzo al fieno; era molto peggio se lo trovavano nascosto.
In Val Pellice c’erano anche altri israeliti; li a Rorà erano parecchie famiglie, anche gente di Torino che conoscevamo; c’erano almeno tre famiglie, oltre a quel Levi. Molti erano anche a Torre Pellice. Quando avevano detto che mio fratello era arrivato felicemente io mi ero molto stupita, avevo detto: «Come fanno a sapere?» lo sono poi andata a Torino a prendere delle carte false bianche, per scriverci poi Ferraguti.
I rapporti con i partigiani erano ottimi; mio marito andava là, faceva dei disegni, stava a chiacchierare un po’ con questa gente, sapevamo dov’erano. Una volte era successo che c’erano i tedeschi che facevano un rastrellamento e avevano detto a tutti gli uomini di andare a consegnarsi in paese; allora avevo messo addosso a mio marito un paltò; nessuno aveva un paltò, la gente del posto non lo portava, avevano delle giacchette o delle giacche a vento, io glielo avevo messo temendo che dovesse stare all’aperto e potesse prendere freddo. C’era un sergente tedesco che stava davanti alla trattoria del paese e, quando è arrivato, mio marito gli ha detto il cognome (figuravamo che venivamo dal Sud); allora sulla porta della trattoria è venuto un maggiore che gli ha fatto segno di venire da lui. «Perché ero vestito diverso dagli a1tri che erano più alla buona», diceva mio marito, e allora ha voluto forse interrogarlo, voleva sapere di dove veniva e lui ha detto che veniva da Napoli. li maggiore gli chiese, «Ma quanto ha speso di treno per venire da Napoli verso Torino?» In quel momento mio marito ha avuto come un’illuminazione e gli ha risposto: «Ma in quel momento, mentre si scappa, non si paga niente, perché si scappa!» È stata una cosa fantastica, è stato così pronto! Quello poi gli ha chiesto: « Dove sono i partigiani?» «Là» , lui ha risposto, mentre naturalmente era da un’altra parte; e così poi l’hanno lasciato andare ed è tornato alla cascina Vernarea; io ero lì che «friggevo». Allora avevamo solo una bambina, ma io aspettavo quelli che sono poi stati due gemelli, maschio e femmina, e che sono nati nel luglio del ’45, ormai a guerra finita.
Alcuni degli israeliti sono andati con i partigiani. C’era una signora che aveva due figli, uno dei quali è andato con i partigiani. Poi c’era Sergio Diena; non so per qual motivo ha fatto questa imprudenza, perché lui aveva delle bombe a mano, ha visto arrivare i tedeschi con i carri armai, si è messo a buttare le bombe contro il carro armato; naturalmente è stato colpito, ferito. È stato poi un medico di Torre Pellice che lo ha portato a Luserna all’ospedale; lì però c’era una specie di controllo, una persona che era lì per interrogarlo, e allora lui per paura di parlare, di dire dov’erano i partigiani, di dire dov’eravamo noi – perché lui sapeva – allora s’è tolto le bende, si è suicidato, in somma, per non parlare.
Un’altra volta sono venuti altri tedeschi, uno dei quali aveva detto che era austriaco e allora io gli ho detto Imprudentemente: «Ma gli austriaci non sono mica tutti per Hitler» «Ha, il 98% – mi ha risposto (lui lo era, naturalmente) – e il 2% no perché sono ebrei, per questo sono contro!» Poi sono stata zitta, perché parlavamo di cose un po’ troppo pericolose!