Nel febbraio 1992 La Beidana, rivista di cultura e storia nelle valli valdesi edita dalla Fondazione Centro Culturale Valdese, dedica il suo numero 16 agli ebrei che durante la guerra di Liberazione hanno trovato rifugio in Val Pellice, e riporta tre testimonianze di “ebrei di Rorà”: quella di Adele Bohm Terracini, quella di Franca Debenedetti Loewenthal e quella di Carmela Mayo Levi.

“Testimonianze – scrive la rivista – [che] ci riportano alle vicende del ’43-’45; tre narrazioni diverse ma ugualmente significative per la compostezza e la ricchezza di valori civili, per l’impressionistica capacità di far rivivere un momento storico (e psicologico) cosi particolare e tragico, o ancora per l’interesse che riveste la ricostruzione di una formazione umana e di una presa di coscienza politica. […] Gli accenni alla necessità di procurarsi documenti falsi nelle condizioni di obbligata clandestinità degli ebrei rifugiati, riportano alla nostra attenzione la rete di appoggio e di difesa che l’antifascismo locale riusci a costruire (come non ricordare – a questo proposito – il ruolo fondamentale di Frida Malan e quello di un coraggioso impiegato del Comune di Torre Pellice, Silvio Rivoir, che per questo venne deportato in Germania?).”

Di seguito la testimonianza di Franca Debenedetti Loewenthal.

Un silenzio proficuo e attento
Testimonianza di Franca Debenedetti Loewenthal

(Questa testimonianza è stata raccolta il 24/8/1991 a Torre Pellice da Daniela Fantino ed Erika Scroppo. Per rendere più scorrevole la lettura sono stati eliminati gli interventi delle intervistatrici. Il titolo è redazionale.)

 

La Val Pellice è sempre stata molto frequentala dagli ebrei: c’era la consuetudine, tra gli ebrei di Torino, di trascorrere le vacanze estive in Val Pellice per l’ambiente della zona, in quanto la popolazione è sempre stata molto aperta, molto cordiale con loro e quindi era piacevole per i torinesi venire a Torre Pellice o a Luserna a passare l’estate. Questo accadeva alla fine degli anni ’20 e all’inizio degli anni ’30; io ricordo perfettamente che la mia famiglia affittava un alloggio all’incrocio di Viale Dante con Viale Mazzini, in quelli che ancora oggi si chiamano Villini Alessio.

Successivamente, quando le vicende belliche costrinsero gli abitanti delle città a sfollare, a lasciare le città bombardate, fu logico anche per molti ebrei torinesi trasferirsi nella zona della Val Pellice. Quando poi, nel dicembre 1943, la situazione politica si fece molto difficile e pericolosa, venne naturale nascondersi e cercare rifugio nelle zone alte della valle.

Tuttavia, prima di parlare degli avvenimenti successivi all’8 settembre 1943, vorrei ricordare il periodo dello sfollamento, cioè gli anni 1942-43, quando in compagnia di altri ragazzini ebrei sfollati a Torre Pellice o a Luserna mi recavo tutti i giorni a Torino per frequentare la scuola (allora frequentavo esattamente la terza media). Noi ragazzi ebrei, dopo le inique leggi razziali dell’autunno 1938, non potevamo più frequentare le scuole statali o parificate e avevamo l’unica possibilità di frequentare le scuole appositamente costituite dalla Comunità ebraica. Quindi non c’era altra soluzione, altra possibilità che andare a Torino. Ricordo che eravamo cinque compagni, cinque ragazzi di circa 12 anni su tredici compagni di classe, e questo già dimostrava il numero consistente di famiglie ebraiche che erano sfollate nella Val Pellice. Partivamo alla mattina piuttosto presto; credo che il treno partisse alle 7 meno 10 e arrivavamo a Torino alle 8 e un quarto, dopo un viaggio spesso faticoso, sui carri bestiame o in vetture sovraffollate di persone che si recavano a Torino a lavorare. Questa esperienza di viaggio quotidiano con i miei compagni certamente contribuì a maturare la mia personalità, ad insegnarmi molte cose ed anche a comportarmi in circostanze diverse. I ragazzi più grandi, nostri fratelli e sorelle maggiori, che invece frequentavano il 1iceo, avevano un orario più lungo, per cui al ritorno noi più piccoli prendevamo il treno delle 12,30, mentre i fratelli e sorelle maggiori fin verso l’una e mezzo non avevano il treno; perciò noi al ritorno ci sentivamo molto importanti a viaggiare da soli, nonostante le avversità della guerra e le difficoltà che si potevano incontrare. Tuttavia era una vita faticosa, soprattutto perché poi al pomeriggio si dovevano fare i compiti e studiare le lezioni per essere preparati per il giorno dopo. Comunque così terminai la terza media e si giunse all’estate del 1943.

lo ricordo molto bene gli avvenimenti del 25 luglio 1943 e soprattutto dell’8 settembre, quando, nei giorni immediatamente successivi all’armistizio, la popolazione prese d’assalto la caserma di Luserna S. Giovanni, asportando dalla stessa tutto quanto in essa trovò: tovaglie, coperte, indumenti, divise, armi. I tempi andavano facendosi sempre più difficili per gli italiani, ma per gli ebrei in modo particolare. Già si aveva forse qualche notizia dei primi eccidi, delle prime stragi di ebrei, dell’eccidio di una famiglia o due di ebrei sul Lago Maggiore, soprattutto il momento tragico della deportazione di più di mille ebrei romani il 16 ottobre 1943. Mio padre e gli altri capifamiglia andavano ormai rendendosi conto che il contesto diventava ogni giorno più difficile e quindi pensavano alle possibili soluzioni per affrontare la situazione contingente come si sarebbe in seguito presentata. Infatti, a fine novembre, quando venne pubblicato il decreto che stabiliva che gli ebrei non erano più cittadini italiani, ma cittadini stranieri e quindi – letto tra le righe – passibili di deportazione, mio padre cercò una possibilità di rifugio nel piccolo centro di Rorà, che allora non era comune autonomo, rna frazione di Luserna S. Giovanni. Mio padre si recò a Rorà con mia sorella cercando una sistemazione e il giorno successivo (io ricordo, era il 4 dicembre 1943) andammo a Rorà. Fu un viaggio lunghissimo e faticoso perché era pieno inverno, la strada stretta tra cumuli enormi di neve, un freddo intenso; su un carretto trainato da un vecchio cavallo avevamo caricato materassi, coperte, le poche cose che potevamo portare con noi; io ricordo questo viaggio come una estrema fatica, come un momento assai difficile della vita della mia famiglia.

Arrivammo a Rorà e la persona che aveva promesso di accoglierci in casa ci disse, senza neanche farci entrare, che non poteva, che non si sentiva di accoglierci. Fu un momento terribile, perché noi eravamo infreddoliti, stanchi, impauriti; non sapevamo dove andare, non sapevamo cosa fare, eravamo proprio al limite della disperazione. Questa persona di cui non cito il nome, anche se so benissimo chi era, ebbe poi un momento dì ripensamento, sì commosse forse nel vederci così mal ridotti; e allora ci fece entrare in casa, ci offrì qualcosa di caldo e poi usci quasi subito per andare a cercare un’altra persona che, molto gentilmente, praticamente uscì da casa sua: era una persona che viveva sola, un giovane della valle, il quale ci affittò la sua abitazione, che era poi costituita da una cucina e da una stanzetta piccolissima in cui dormivamo in quattro, mio padre, mia madre e noi due sorelle, e c’era soltanto un armadio, oltre a due letti piccoletti: non certo una sistemazione comoda! Comunque in quella camera, ìn quelle due camere vivemmo per quasi tutto il periodo della nostra permanenza a Rorà.

Ricordo che a Rorà vennero poi altri ebrei e complessivamente vi furono rifugiate sedici persone, componenti cinque diverse famiglie. So che altre persone erano nascoste in altre zone della Val Pellice, sia verso Angrogna, sia sopra Luserna. Anche un’altra famiglia era rifugiata sopra Rorà, nella frazione dei Rumé, dove rimase fino al grande rastrellamento del 21-22 marzo 1944. All’inizio, nelle prime settimane, la popolazione sembrò ignorarci, cioè sembrò essere indifferente alla nostra presenza. D’altra parte anche noi cercavamo di andare in giro il meno possibile e di non farci notare, perché chiaramente avevamo paura, ma era una paura che forse avevano anche gli abitanti del luogo. In seguito, soprattutto con il primo rastrellamento del 21-22 marzo 1944, l’atteggiamento della popolazione diventò più cordiale, c’ignoravano di meno; ma il loro ignorarci non fu dettato da malanimo, era semplicemente una indifferenza voluta per non metterci in imbarazzo, per non creare dei problemi anche a noi; fu un silenzio, un’indifferenza molto proficua ed attenta.

I rastrellamenti del marzo ’44 furono gravissimi: portarono danni e tormento alla popolazione ed ai partigiani e a noi che eravamo nascosti soprattutto paura. Proprio in occasione di quel rastrellamento mio padre, ed anche un altro ebreo che era nascosto a Rorà, vennero presi come ostaggi e portati con altri uomini del paese al cimitero, dove dovettero rimanere in piedi con la faccia al muro per l’intera giornata, in attesa di essere fucilati nel caso che i tedeschi avessero deciso l’eliminazione degli ostaggi. La stessa cosa si ripeté il giorno successivo, il 22 marzo; soltanto alla sera venne liberato uno degli ostaggi. Era per combinazione mio padre, il quale aveva esibito come documento di riconoscimento la sua tessera di ufficiale in congedo, sulla quale il suo cognome e nome – Capitano Debenedetti Riccardo, fu Davide, fu Levi Bellina – risultava con assoluta chiarezza. L’altro ebreo invece aveva documenti falsi.

Comunque mio padre fu rilasciato, perché i nazisti non si accorsero o non vollero accorgersi di questi nomi. Mio padre ci raccontò che il capitano tedesco era entrato, alla sera del secondo giorno, nell’aula della scuola, dove tutti gli ostaggi erano in grande agitazione, non sapendo quale destino li attendesse; l’ufficiale era entrato nell’aula tenendo in mano il suo documento e lo aveva chiamato: «Tu libero, andare!» e gli aveva riconsegnato il suo documento d’identità. Fu l’unico ostaggio liberato quella sera. Tutti gli altri vennero portati a Luserna e taluni vennero trattenuti per otto giorni nella caserma. Per quale miracolo .mio padre sia stato liberato non l’abbiamo mai saputo. È certo che se i nazisti avessero capito che c’era un ebreo, avrebbero indagato meglio e avrebbero preso tutti: la deportazione era assicurata.

Infatti in quel momento sulla testa di ogni ebreo c’era una taglia con una cifra consistente, che veniva data a chi avesse denunciato la presenza di un ebreo. Molti miei correligionari subirono questo destino, proprio per la delazione di alcune persone. Invece la popolazione di Rorà si dimostrò sempre molto solidale con noi, tacque, non parlò, non ci tradì, nessun ebreo nella Val Luserna venne preso dai tedeschi né venne deportato per la delazione della popolazione: questo deve essere detto e ripetuto a onore e merito di quelle popolazioni che veramente hanno dimostrato con il loro silenzio di esserci vicine, di essere solidali, di capire il dramma di chi è perseguitato, proprio forse perché i loro antenati avevano subito molte e crudeli persecuzioni.

Ma torniamo alla nostra vita di tutti i giorni, la vita dei giovani e degli adulti; io non avevo tanti coetanei, anzi, c’era solo mia sorella, per un brevissimo periodo di tempo anche uno dei miei compagni di scuola abitò ai Rumé; comunque trascorrevamo le giornate cercando di far passare il tempo nel miglior modo possibile: si leggeva, si studiava. Ecco, io ricordo anche che è stata un’esperienza direi unica per me quando mia madre, per trascorrere le serate un po’ meno noiosamente (allora non c’era la televisione, non c’era la radio, non c’era niente), propose di leggere i Promessi sposi, un capitolo per sera; e così la famiglia si raccoglieva intorno alla stufa, l’unica stufetta accesa, e leggevamo un capitolo del romanzo ogni sera. È stato il mio primo incontro con Alessandro Manzoni: debbo dire che io non avevo ancora letto i Promessi sposi, avevo solo 14 anni, e fu un incontro bello, molto significativo, perché riuscii veramente ad apprezzare lo stile del grande scrittore al di là della vicenda storica romanzesca, che tutti noi conosciamo.

lo ero una ragazzina e quindi avevo anche bisogno di muovermi, di girare e così ho fatto anche esperienze contadine, perché nell’estate ogni tanto la donna che abitava di fronte a noi mi affidava due o tre caprette che io portavo al pascolo appena sopra casa: e così facevo la pastorella! Però anche si studiava, perché il primo concetto dell’ebraismo è lo studio e l’impegno mentale e spirituale, e quindi studiavo più o meno come potevo, perché non avevo chi mi potesse guidare, mi potesse insegnare bene e cercavo di prepararmi un po’ al programma della quarta ginnasio che proprio in quell’anno avrei dovuto frequentare. Ricordo ancora che nell’estate la madre del pastore Enrico Geymet tenne un corso di francese per i ragazzini di Rorà e anch’io vi partecipai insieme con gli altri, uguale agli altri, il che mi faceva molto piacere.

Noi ebrei di Rorà avevamo tra noi dei momenti di incontro, direi quasi quotidiani, non nei primissimi mesi, nelle prime settimane, ma poi quando la tensione cominciava ad allentarsi un po’ c’erano dei punti di contatto. Mia madre al pomeriggio si incontrava con altre due o tre signore ed insieme lavoravano a maglia, confezionavano calze, guanti, anche per i partigiani, che naturalmente avevano bisogno di essere aiutali. Io stessa cercavo di lavorare a maglia, anche se non ho mai avuto molta familiarità con i lavori femminili. Ricordo lo scultore Roberto Terracini che girava con la sua cartella e con i suoi disegni, con l’occorrente per disegnare, e schizzava rapidamente sulla carta quello che il suo occhio attento e vigile di artista vedeva; e rapidamente una figura, un volto nasceva sul suo foglio bianco. Un giorno appunto mi trovato seduta sulle scale di casa, godendo il sole (la stufa veniva accesa il meno possibile perché di legna non ce n’era, costava troppo) e lavoravo a maglia, quando arrivò lo scultore Terracini, che forse passava di lì per salutare mio padre. Mi vide lavorare a maglia e disse: «Ferma, ferma, non ti muovere!», e in un quarto d’ora fece un disegno bellissimo che io ancora conservo e che recentemente ho appeso nel mio salotto; ogni tanto lo guardo, ricordando non solo lo scultore Terracini, ma anche il periodo della mia adolescenza trascorsa a Rorà.

Mio padre e Mario Levi, detto «Olearo», nascosto anche lui a Rorà, ascoltavano Radio Londra; andavano ad ascoltarla presso la Trattoria Frioland, dove la proprietaria, la signora Linda Tourn Boncoeur, li accoglieva ed ascoltavano insieme la radio, cercando di captare delle notizie che naturalmente la radio italiana non dava, né – d’altra parte – possedevamo una radio e quindi non potevamo sentire neppure quella italiana. In quei mesi del ’44 e del ’45 si susseguirono parecchi rastrellamenti e, quando i tedeschi erano in vista, spesso gli uomini del paese correvano a nascondersi e rimanevano solo le donne e i bambini, esposti alle eventuali vendette dei nazisti che, non trovando quello che cercavano, avrebbero anche potuto compiere degli atti di vendetta e di cattiveria nei confronti della popolazione civile.

Come gruppo di ebrei abbiamo anche avuto dei momenti di incontro di tipo religioso, anche se nessuno degli ebrei rifugiati a Rorà era particolarmente osservante; eravamo tutti ebrei, ma non rigidamente osservanti, non ortodossi. Comunque abbiamo cercato dì ricordare, nei limiti del possibile le solennità ebraiche e, in particolare, ricordo che, alla Pasqua del 1944, con un po’ di farina che si era riusciti a trovare (perché abbiamo anche sofferto la fame, non è che ci fosse grande abbondanza di viveri!) mia madre con la moglie dello scultore Terracini, con Carmela Levi, con le altre donne, preparò una specie di pane azzimo, com’è uso ebraico consumare a Pasqua. Queste azzime devono cuocere assolutamente senza lievitare e devono avere dei piccoli taglietti sulla superficie in modo da poter cuocere più facilmente: questi taglietti, queste incisioni, vennero fatte dallo scultore Terracini, una vera opera d’arte compiuta cosi, sul vivo, dallo scultore! Quelle azzime riuscirono veramente molto buone!

I giorni della liberazione furono molto significativi e sono rimasti impressi in modo indelebile nel mio animo. Furono giornate di gioia, anche se forse, come ragazzina di 15 anni, non mi rendevo ancora ben conto del grande momento che stavamo vivendo. Comunque, quando si seppe della fuga dei tedeschi e della liberazione, i ragazzi del paese, e io insieme con loro, andammo prima alla chiesa cattolica e successivamente alla chiesa valdese a suonare le campane in segno di festa e di gioia. Ancora ricordo che, pochi giorni dopo, nella chiesa evangelica venne celebrato un culto di ringraziamento, che fu presieduto dal pastore Cipriano Toum, culto che si concluse, lo ricordo perfettamente, quando il pastore citò la celebre strofa manzoniana del Marzo 1821:

Oh giornate del nostro riscatto!
Oh dolente per sempre colui
che da lunge, dal labbro d’altrui,
come un uomo straniero le udrà!
che a’ suoi figli narrandole un giorno,
dovrà dir sospirando: «io non c’era»;
che la santa vittrice bandiera
salutata quel dì non avrà.

Quando poi potemmo lasciare l’esilio di Rorà e ritornare verso la bassa valle per riprendere le nostre attività, io i miei studi, i miei genitori il ]oro impegno di lavoro, non avevamo più una casa a Torino; ma mio padre riuscì a trovare due camere a Torre Pellice, non lontano dal Collegio valdese, dove ci trnsferimmo a metà di maggio.

Cosi stavano facendo anche le altre famiglie ebraiche ed allora il pastore Geymet organizzò nel teatrino di Rorà una festa di saluto per gli ebrei che partivano; fu una serata di grande commozione perché lasciavamo delle persone che si erano dimostrate per noi veramente amiche.

Il fatto stesso – lo ribadisco – che non ci avessero tradito, che ci avessero accolto tra loro, che avessimo condiviso le ansie, gli affanni, le angosce, i pericoli de’.la guerra e poi la gioia della liberazione ci ha uniti profondamente, tant’è vero che in tutti questi anni, questi quarantacinque anni, prima i miei genitori, poi la sottoscritta, mia sorella, tutti, anche gli altri ebrei di Rorà, siamo sempre ritornati tra i nostri amici rorenghi, proprio per dimostrare in modo tangibile la nostra riconoscenza, la nostra gratitudine per quello che loro avevano fatto per noi, soprattutto per non averci traditi e per non averci consegnati nelle mani dei nostri aguzzini.

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