Nel febbraio 1992 La Beidana, rivista di cultura e storia nelle valli valdesi edita dalla Fondazione Centro Culturale Valdese, dedica il suo numero 16 agli ebrei che durante la guerra di Liberazione hanno trovato rifugio in Val Pellice, e riporta tre testimonianze di “ebrei di Rorà”: quella di Adele Bohm Terracini, quella di Franca Debenedetti Loewenthal e quella di Carmela Mayo Levi.

“Testimonianze – scrive la rivista – [che] ci riportano alle vicende del ’43-’45; tre narrazioni diverse ma ugualmente significative per la compostezza e la ricchezza di valori civili, per l’impressionistica capacità di far rivivere un momento storico (e psicologico) cosi particolare e tragico, o ancora per l’interesse che riveste la ricostruzione di una formazione umana e di una presa di coscienza politica. […] Gli accenni alla necessità di procurarsi documenti falsi nelle condizioni di obbligata clandestinità degli ebrei rifugiati, riportano alla nostra attenzione la rete di appoggio e di difesa che l’antifascismo locale riusci a costruire (come non ricordare – a questo proposito – il ruolo fondamentale di Frida Malan e quello di un coraggioso impiegato del Comune di Torre Pellice, Silvio Rivoir, che per questo venne deportato in Germania?).”

Di seguito la testimonianza di Carmela Mayo Levi.

Anni difficili
Autobiografia di Carmela Mayo Levi

(Questo testo è stato scritto nel 1982; […].)

 

Io ho quel che ho donato

La mia famiglia si era trapiantata a Torino nel 1915, profuga per la grande guerra; i miei genitori avevano dovuto abbandonare la loro casa ed il negozio che avevano a Gradisca d’Isonzo, nella Venezia Giulia. Mia madre ml raccontava che una mattina I lancieri italiani a cavallo erano passati per le vie della cittadina intimando: «Questa sera o prima del levar del sole tutta la popolazione deve lasciare libera la città» Ogni famiglia dovevo scegliere se andare dalla parte dell’Austria o dell’Italia; quella era una zona di frontiera dove si stabilì il fronte di guerra e vi furono aspri combattimenti.

Mia madre era veneziana, aveva sposalo mio padre andando ad abitare a Trieste dove era nato mio fratello, poi gli affari erano andati male e si erano trasferiti a Gradisca (Gorizia} dove avevano rilevato un negozio di mercerie e là io nacqui nel 1914. Sempre mia madre mi raccontava della lunga e triste odissea dei profughi: «Appena usciti da Gradisca abbiamo sentito un grande scoppio che aveva fatto tremare la terra, il ponte sull’Isonzo era stato fatto saltare e tutta la popolazione a piedi, con carri, fagotti e valigie, portando seco solo ciò che le era possibile e aveva di più caro, camminava per la strada. Tu eri quella che stavi meglio – mi diceva – perché eri nella carrozzina e avevi il tuo letto, noi abbiamo dormito per terra, nei conventi, sulla paglia, abbiamo camminato per tre giorni attraversando paesi e città, in queste avevano preparato dei luoghi di ristoro e, finalmente arrivammo a Venezia dove viveva la nonna». A Venezia era tutto oscurato, c’erano gli Alti Comandi e non poterono fermarsi, i profughi potevano andare solo a Torino o a Firenze, lontano dal fronte. «Ho solo potuto abbracciare mia madre e dovemmo ripartire, questa volta con il treno!» Scelsero Torino perché colà abitava la zia Fausta, vedova di un fratello del nonno e qui si stabilirono.

Incominciarono con nulla, in una camera ammobiliata, con molta volontà e fatica. Mia madre aveva un carattere sereno e dignitoso, non si lamentava mai, usciva sempre con il cappellino anche se aveva pochi soldi nel portamonete e al mercato guardava tutti i banchi cercando di risparmiare. Torino, allora, non aveva ancora conosciuto l’immigrazione ed i suoi abitanti avevano la mentalità un po’ chiusa e diffidente dei montanari, inoltre c’era la crisi del dopoguerra così qualche volta le dissero umiliandola: «L’han al caplin, a parlu italian e a veulo nen spende» (hanno il cappellino, parlano italiano e non vogliono spendere) «vengono a portarci via il pane e il lavoro».

E mia madre mi raccontava che nei primi anni quelle lunghe vie diritte, quelle case alte e uguali la opprimevano e che ci stava perché l’avevano costretta.

Poi nacque mia sorella Giulia, mio padre da principio aveva fatto il commesso in un negozio di stoffe poi, dopo qualche anno, si mise in proprio e iniziò a viaggiare per affari con delle rappresentanze e stava poco in casa; negli ultimi anni riuscì ad aprire un negozio di tappeti.

Noi incominciammo ad andare prima all’asilo poi alla scuola israelitica, facemmo delle conoscenze e delle amicizie, mia madre ci vestiva sempre decorosamente, sapeva cucire e aggiustava e rivoltava gli indumenti, «vestivamo anche noi alla marinara».

Mia nonna a Venezia morì e venne a stare a Torino lo zio Gino, un fratello di mia madre, ci portò qualche mobile e degli oggetti della nonna.

La guerra era finita e mio padre con lo zio partì per Gradisca per rivedere la casa e il negozio. Purtroppo trovarono l’alloggio in rovina e il negozio saccheggiato, l’edificio era servito come ospedale da campo e le lenzuola del corredo di mia madre erano state utili!

Raccolsero quanto poteva ancora servire, riempirono un baule che spedirono a Torino nell’alloggio che mio padre aveva affittato. «Quando aprirono la cassa – mia mamma ci raccontò – scappò fuori, con la roba ammuffita, pure un topo!»

Ora a me Torino piace, proprio per la sua pianta regolare, per 1e sue montagne e per i suoi abitanti, precisi, lavoratori, cortesi e onesti, anche se poco allegri ed espansivi. Torino divenne la mia città d’adozione, però io non seguii tutte le sue lotte per la libertà e per il lavoro.

Benito Mussolini aveva fatto la marcia su Roma, sostenuto dalle sue squadracce e dalla destra, si era imposto in Parlamento instaurando la dittatura fascista, uccidendo o incarcerando l’opposizione e, per risolvere le proprie crisi, condusse la nazione in altre guerre di conquista.

Ma a casa mia non si parlava di politica, mia madre era sempre affaccendata per allevare i tre figli e far quadrare il bilancio; quando mio padre, anche lui sempre affaccendato negli affari, arrivava a casa per le feste, tutto doveva essere in ordine, aveva il -suo posto a capo-tavola e recitava le preghiere con le cerimonie religiose.

Mio zio Gino si sposò con una giovane ragazza vicina di casa. Ricordo la cerimonia al Tempio (la nuova zia si era fatta ebrea) poi ci ritrovammo tutti in un caffè di via Nizza, la zia Gina aveva un abito lungo bianco e un cappellino con le piume; aveva un carattere allegro ed espansivo, andarono ad abitare in un bell’alloggio poco distante dal negozio di copisteria dello zio. Dopo un anno avvenne il fallimento della “Banca di Sconto” di Novara, lo zio aveva depositato colà tutti i suoi risparmi e sì trovò a terra, dovette cedere l’alloggio e con la zia andò ad abitare nel retrobottega.

L’anno dopo nacque Sergio il loro bel bambino, fu come un raggio di sole in quella modestissima abitazione; era biondo con i grandi occhi scuri e molto intelligente; io andavo spesso da loro e intrattenevo il piccolo mentre la zia scriveva a macchina.

Aveva due anni quando sì ammalò dì polmonite, con le cure riusci a superare la malattia ma l’anno dopo, durante il rigido inverno ebbe una ricaduta. Gli zii si indebitarono per curarlo, fecero un consulto con i migliori professori, ma a nulla valse (non esisteva ancora la penicillina) e il piccolo Sergio morì all’età di tre anni, spegnendo quel raggio di sole nel retrobottega di via Saluzzo.

Nel 1938 ero diventata una comune ragazza piccolo-borghese di 24 anni, impiegata, ligia ed ossequiente alle leggi dello Stato che pensavo facesse l’interesse di tutti cittadini. Ero, di conseguenza iscritta alle Giovani Fasciste, frequentavo il gruppo rionale «Lucio Bazzani» e partecipavo alle varie adunate. Una mattina d’agosto fummo invitate ad ascoltare il discorso del federale Gazzotti, nel piazzale antistante il Castello del Valentino e, per la prima volta, rimasi stupita e perplessa in merito al frasario usato dall’oratore. Ad un certo punto aveva esclamato: «Quei piedi piatti, piovra del nostro popolo, dovranno fare i conti con noi…»

Lì per li non capii a chi voleva alludere però, nei giorni seguenti, provvidero i giornali, con i loro articoli contro gli ebrei, a rendermi edotta.

Dunque io ero una piovra, facevo parte della plutocrazia giudaica che viveva alle spalle del popolo italiano; io che lavoravo dall’età di 14 anni e che mi ero fatta un minimo di cultura studiando alla scuola serale e domenicale.

Questa ingiusta campagna antisemita e le leggi razziali che seguirono, limitando le possibilità di lavoro e di vita degli ebrei, mi fecero aprire gli occhi e capii che eravamo governati da dei servi della Germania di Hitler.

Mio zio Gino Rossi raccoglieva molti articoli dei giornali dell’epoca con i vari discorsi di Mussolini e ci faceva leggere le contraddizioni che contenevano, nel 1929 aveva detto «non vi sarà mai in Italia una questione razziale» – e aveva ribadito poi nei «colloqui con Ludwig» che «il razzismo è una stupidaggine» e nel 1937 confidava al Cancelliere austriaco Schuschnigg «noi siamo cattolici( … ) non ammettiamo le teorie razziste».

Bisogna inoltre tenere conto che in Italia gli ebrei stranieri, prima del 1938, erano stati favoriti dal governo. Dato che nella Germania di Hitler esisteva il «numerus clausus » per entrare nelle Università e quasi tutti gli ebrei venivano esclusi, l’Italia aveva invitato gli studenti stranieri, agevolandoli nelle tasse, perché venissero a studiare nelle nostre università. Così molti giovani ebrei si laurearono in Italia, favorendo pure il bilancio dello Stato con le rimesse di valuta straniera che inviavano le famiglie.

Conobbi diversi di questi studenti, Klain, Rosenthal, Ways ecc. La campagna diffamatoria di stampa continuava, lo ero indignata e mi sentivo offesa, così una sera decisi di recarmi al «Gruppo Bazzani» e consegnai la mia tessera di Giovane Fascista in segreteria.

Le mie camerate coetanee mi guardarono stupite e una mi chiese: «Ma perché rendi la tessera?» «Io sono ebrea – risposi – mi considerate straniera e nemica perciò mi tolgo dal partito». E me ne andai.

Qualche tempo dopo incontrai una mia ex camerata in via Pio V, vicino a casa mia e quella fece finta di non vedermi.

Intanto, nel 1939, iniziò l’applicazione delle leggi razziali; incominciarono a perdere il posto di lavoro i professori, poi tutti gli impiegali dello Stato. I ragazzi ebrei non potevano frequentare le scuole pubbliche e gli ebrei non potevano tenere personale «ariano» alle dipendenze, neppure per le persone anziane e ammalate era concesso tenere una persona di servizio. Quasi ogni giorno usciva una nuova legge che i giornali di regime esaltavano.

Un giorno venne un vigile a casa a portare un documento a mia madre e nel consegnarglielo le disse severo: «Lei è straniera e anche ebrea!»

Ricordo l’espressione tra offesa e divertita di mia madre: «Gli ho detto, sono nata a Venezia io e non ho ammazzato nessuno!»

Mio padre, nato a Smirne, aveva mantenuto l’antica identità spagnola, quella degli ebrei sefarditi che avevano lasciato la Spagna nel 1500 per l’Inquisizione e non si erano assimilati ai turchi conservando le loro Comunità e la loro dolce parlata spagnola· castigliana.

Una nostra amica, Eugenia Cuzzeri, il cui padre occupato in ferrovia venne licenziato dopo tanti anni di lavoro, andò a fare la domestica presso la casa dei Levi·Basevi.

Mio zio Ugo Rossi che lavorava all’Aeronautica di Milano, venne licenziato da un giorno all’altro e aveva tre figli piccoli a carico.

Mio padre, intuendo il peggio, liquidò il negozio, prima che glielo potessero sequestrare ed emigrò in Spagna, sperando di potersi sistemare in qualche modo, non essere più straniero e poterci poi richiamare. Purtroppo ebbe le sue vicissitudini per l’avvento di Franco al potere, poi si ammalò e noi non avemmo più sue notizie, anche perché le frontiere vennero chiuse. (Solo nel novembre del 1941, 11 mesi dopo, ricevemmo dal Consolato Italiano al quale ci eravamo rivolti, la notizia della sua morte).

Il 10 giugno 1940 scoppiò la guerra in Italia; ricordo che ascoltai il discorso di Mussolini diffuso in piazza Castello a tutto volume dagli altoparlanti. L’Italia dichiarava la guerra alla Francia e all’Inghilterra, due grandi potenze, e guardai stupita chi applaudiva alla guerra.

Il popolo italiano era ormai plagiato dalle grandi parole di Mussolini, dalle parate e dai desideri di grandezza.

E incominciarono i bombardamenti sulla città.

Noi abitavamo in centro, vicino alla Stazione di Porta Nuova e spesso di notte suonavano le sirene, ci si doveva vestire in fretta, alla meglio e scendere quattro piani di scale al buio, di corsa, per andare nel rifugio in cantina.

Io lavoravo in un’antica ditta di articoli per disegno e copie eliografiche nel centro di Torino, a conduzione familiare; i miei principali mi stimavano e non pensavano di licenziarmi. Qui, nel 1941, conobbi Mario Levi che poi divenne mio marito. Era un pomeriggio di fine agosto, ero sola nel negozio perché la signora era in ferie, Mario venne ad acquistare un decametro e chiese di me (lo aveva indirizzato una mia conoscente di un’altra cartoleria dicendogli che avrebbe trovato l’articolo tecnico che cercava).

C’era calma nel negozio e potemmo chiacchierare, mi disse che dallo scoppio della guerra era internato in Abruzzo, come ebreo antifascista e che ora aveva avuto un permesso per visitare il padre anziano ed ammalato. Ad Ateleta, quando capitava, faceva delle misurazioni di terreni, divisioni di eredità, ecc. ed i contadini lo ricompensavano in natura, con delle uova o altri alimenti.

Ritornò ancora nei giorni seguenti poi ripartì, incominciammo però a scriverci e la nostra corrispondenza durò regolarmente per più di un anno. Le lettere mi giungevano censurate e mio fratello temeva per questa corrispondenza.

La guerra continuava ad imperversare e la nostra radio ci martellava annunciando sempre vittorie, avanzate delle nostre truppe in ogni parte del mondo e annientamento del nemico con i bombardamenti.

Ricordo che era pure stato coniato un nuovo termine «coventrizzare», dato che ogni giorno dicevano che avevano distrutto Coventry.

Ma noi eravamo al freddo ed alla fame, senza poter dormire una notte intera.

C’era purtroppo anche chi approfittava di questa situazione ed aveva scorte di viveri e merci che vendeva a borsa nera con prezzi esosi.

lo percepivo allora uno stipendio mensile di L. 900, era già una paga discreta ma non bastava.

Un giorno rivedo Mario, è venuto ad aspettarmi all’uscita dal negozio, mi racconta che, corrompendo con un grosso regalo un funzionario della Questura, è riuscito a farsi trasferire come vigilato speciale a Torino. Così la nostra amicizia si rafforzò; tutte le sere veniva a prendermi all’uscita dal lavoro e ogni domenica andavamo, assieme a mia sorella ed altri amici, nelle campagne vicine, in bicicletta cercando di acquistare dai contadini un po’ di farina o delle uova per la settimana.

Durante le nostre gite in bicicletta alla ricerca di viveri, nel luglio 1942 a Villanova d’Asti, conobbi una famiglia di profughi iugoslavi, erano ebrei fuggiti all’occupazione tedesca ed internati dalle nostre autorità in quel paese. Stabilimmo un rapporto di amicizia con questa famiglia composta dai genitori, un ragazzino di 11 anni Miroslavo Klaric, il nonno e due zii. I genitori erano preoccupati per Miroslavo che perdeva anni di scuola e, dato che era intelligente e aveva già imparato a parlare l’italiano, potè entrare nell’ottobre 1942 nel Collegio israelitico di Torino. I genitori però, essendo internati, non potevano uscire da Villanova e perciò andarlo a trovare. lo andai qualche domenica a prenderlo, lo portai a passeggio per la città e una volta al cinema; stette solo fino a tutto novembre a Torino, aveva nostalgia della sua famiglia, si sentiva isolato in un paese in guerra, così un giorno scappò dal collegio e mi avvisarono. Mi recai allora a Villanova e trovai Miroslavo che camminando a piedi e facendo l’autostop, era ritornato dai genitori.

(Fu un bene perché gli avvenimenti si aggravarono, nel 1943 quegli internati vennero trasferiti dalle autorità italiane in altro luogo e non seppi più nulla di loro).

Intanto i bombardamenti nella città incominciarono a farsi pesanti, nel novembre del 1942 quasi ogni notte fischiava la sirena e si doveva correre nel rifugio. Sentivamo i tonfi sordi delle bombe che cadevano nelle vicinanze, alle volle tremava tutto il caseggiato e si spegneva la luce, poi, al mattino si camminava nelle vie piene di vetri rotti, calcinacci e polvere e alcuni negozi avevano le serrande sventrate.

Nella notte del 21 novembre 1942 uno spezzone incendiario cadde anche sul tetto della mia casa che prese fuoco; eravamo nel rifugio e ci fecero uscire nella via per andare a cercarne un altro più sicuro. Era una notte serena rischiarata dal bagliore delle lingue di fuoco che uscivano dai tetti e dalle soffitte delle case; in via Pio V il Tempio Israelitico era uno spettacolo apocalittico, le cupole erano avvolte dalle fiamme che uscivano da tutte le finestre, in alto, il cielo era trapuntato di stelle. Il nostro portinaio con altri uomini spense il fuoco e potemmo rientrare a casa, ma quale squallore! Fumo, polvere, vetri rotti, buio e freddo; ci coricammo vestiti.

Da quella notte decidemmo di sfollare, cioè andare a dormire fuori città per poter riposare tranquilli. Alla sera, in bicicletta andavamo in una villa sulla collina di Moncalieri dove i fratelli Colombo (datori di lavoro di mia sorella) avevano messo a disposizione dei dipendenti della Ditta alcune camere. Avevamo fatto trasportare lassù qualche mobile di casa e mia madre si trasferì colà. Ogni sera mia sorella ed io la raggiungevamo; anche a Mario dettero un posticino in una soffitta per dormire.

Venne il 25 luglio 1943; dopo tre anni di guerra la gente era stanca di sacrifici, fatiche e notizie di morti, ormai aveva capito che il Duce era solo un pallone gonfiato (numerose barzellette si bisbigliavano sul suo conto). Il fascismo aveva portato solo guerre, distruzioni, morti e rovine così quando venne comunicata per radio la notizia che il fascismo era caduto, che il Duce non era più il Capo del Governo ma che subentrava il Generale Badoglio, vi furono ovunque manifestazioni di gioia.

Una folla immensa percorse via Carlo Alberto vociando, ridendo, cantando e abbracciandosi; qualcuno entrò nella Casa Littoria e gettò fuori, sulla strada, un busto di bronzo di Mussolini, lo legarono al collo con una corda e venne trascinato lungo la via.

Si pensava che la guerra fosse finita, anch’io ero esultante. Mario quella sera venne a prendermi all’uscila dal negozio e smorzò il mio entusiasmo dicendo: «Non è finita, speriamo in bene.»

Con questa speranza ci fidanzammo ufficialmente, pranzammo una domenica insieme alla mamma e a mia sorella Giulia, in collina alla villa dei Colombo e Mario mi diede l’anello della sua povera mamma.

E veramente la guerra non era finita, lo disse un giorno il Generale Badoglio alla radio: «la guerra continua!» Ma allora niente era cambiato, i tedeschi consideravano ancora valido il «patto d’accìaìo» stipulato da Mussolini con Hitler e i suoi seguaci si radunarono sul lago di Garda e formarono la «Repubblica di Salò» mentre Badoglio cercava segretamente di patteggiare con gli inglesi. Era una situazione equivoca e fu breve ìl periodo di pace e libertà, dal 25 luglio a11’8 settembre 1943.

Ricordo quel pomeriggio, verso sera ero nel negozio di via Mazzini, dove lavoravo, entrano correndo due soldati e cercano di nascondersi; dissero che erano inseguiti e chiesero affannati qualche abito civile. Li facemmo passare nel retro, la Signora dette loro una giacca e un camice da lavoro del marito, si cambiarono ed uscirono di corsa dal retrobottega; noi nascondemmo in cantina le giacche militari.

Rimasi sgomenta: non avevamo più esercito, nessuna difesa.

E le armate tedesche invasero la città.

Il mattino dopo i carri armati tedeschi percorrevano corso Vittorio e, a Porta Nuova, costrinsero i cittadini ad attraversare il corso con le mani alzate. Qualcuno fischiò, allora raffiche di mitragliatrice partirono dai carri e uccisero due cittadini anziani seduti al caffè all’angolo dì via Nizza.

Nelle nostre vie, divenute silenziose e quasi deserte, risuonavano i passi ferrati dei soldati tedeschi. Venivano anche nella nostra Ditta a far tirare delle copie dei disegni riguardanti le controaeree che avevano piazzato sulla collina. Aspettavano accanto alla macchina per ritirare le copie appena pronte, poi bruciavano quelle malriuscite di scarto.

La persecuzione antisemita riprese ad infierire, ma io continuavo ad andare al lavoro, i miei principa1i mi stimavano e mi raccomandavano di non par1are e fare attenzione.

E i bombardamenti ripresero la loro opera di distruzione e dì morte, ma ora la collina non era più sicura, bisognava andare più lontano, fuori città. In campagna conoscevamo solo quella famiglia dì profughi jugoslavi internati. Così salimmo su quei carri bestiame, dove si viaggiava in piedi, pigiati, al buio e al freddo e alle volte capitava anche di doverci fermare in aperta campagna per aspettare la fine di un allarme.

I nostri compagni internati furono molto ospitali e gentili, offrirono un letto a mia madre e sistemarono me e mia sorella con delle coperte sopra delle valigie. Andammo ogni sera, ma per un breve periodo, perché era Impossibile continuare a sfollare; bisognava alzarsi che era ancora buio, poi quel treno non arrivava mai, ricordo che piangevo alla stazione dalla rabbia, dal sonno, dal freddo e dalla fame.

Ma i bombardamenti in città continuavano; la Ditta Colombo, dove lavorava mia sorella, venne in parte sinistrata e trasportarono la merce salvata in una villa a Coazze; Giulia e mia madre si trasferirono colà e trovarono così una sistemazione.

lo restai a Torino, dovevo pur lavorare; Mario era ritornato perseguitato politico e razziale e un giorno andarono i carabinieri nella sua abitazione per prenderlo, fortunatamente era assente, la sua padrona di casa al rientro l’avvisò ed egli rimase senza tetto.

Lo ospitai in una camera del nostro alloggio semi-vuoto in via Pio V ed ebbi in prestito una branda dalla mia vicina.

Al sabato sera salivamo su di un camion e andavamo a Coazze, dove ci fermavamo fino al lunedì mattina.

La guerra continuava ed io cominciai a pensare che bisognava. non solo cercare di sopravvivere, ma fare qualche cosa per porre fine a questo disastro dell’umanità.

Ricordo che un giorno nel negozio in cui lavoravo, parlai con un disegnatore meccanico di nome Manuelli e dissi che non si doveva solo subire. ma si avrebbe dovuto forse qualche cosa per far finire questa orribile guerra. Egli mi prese in disparte e mi chiese se veramente ero disposta a fare qualche cosa che poteva anche essere pericoloso. «Certo» – risposi, allora mi diede un appuntamento in un caffè. lo andai con Mario e subito fraternizzarono; era un compagno che faceva un giornale clandestino di fabbrica «La stella rossa» e mi diede delle pagine da battere a macchina. Andai a scrivere quelle pagine alla sera, dopo il lavoro, nella copisteria di mio zio Gino Rossi.

Gli avvenimenti incalzavano, incominciava il movimento di liberazione clandestino. Mario si era messo in contatto con dei compagni e il tipografo Castagnone, che aveva un piccolo laboratorio nel cortile di una casa con i portici in via Pomba, ci fece le carte d ‘identità false con il nome di Olearo.

Mi licenziai dal negozio e, dopo dieci anni che avevo lavorato con quei principali, ricevetti una liquidazione di L. 5.000.

Un cliente mi aveva indicato l’Istituto Missionario Rebaudengo, dove avrei potuto farmi fare un paio di scarpe di vera pelle con la suola di cuoio. Mi feci fare pure una borsetta di pelle e dalla sarta un abito nuovo di velluto, ordinai un piccolo rinfresco e rimasi con 500 lire.

Ci sposammo il 28 novembre 1943 nel tempietto dell’Orfanotrofio israelitico di via Orto Botanico. L’ufficiale Giacomo Debenedetti aperse il locale apposta per no i, il vice rabbino Aldo Perez arrivò da fuori Torino, anche la mamma e mia sorella erano arrivate da Coazze. Mio fratello era ricoveralo da qualche tempo all’Ospedale di Cuorgnè per i postumi di una vecchia frattura alla gamba.

Dopo la cerimonia il collegio venne chiuso e a piedi, con i testimoni, ci recammo nel caffè dell’Accademia dove brindammo, ero riuscita anche a trovare i confetti!

A casa, oltre agli zii Gini Rossi invitai Lia Corinaldi, cugina di Mario, e sulla stufetta facemmo cuocere le tagliatelle preparate il giorno prima, unico piatto di lusso.

Dopo il pranzo partimmo subito per Torre Pellice in treno. Ci fermammo due giorni alla Pensione Malan poi prendemmo la strada dei monti.

Il 1 ° dicembre 1943 scattarono le leggi razziali tedesche e incominciò ovunque la caccia all’ebreo e all’uomo. Ricordo sempre con rammarico di una signora ebrea ottantenne, ospite nella pensione, che mi pregò di prenderla con noi. Ma Mario ed io andavamo in alta montagna, come avremmo potuto farle fare a piedi in salita dodici chilometri? Ci interessammo perché venisse ospitata nell’ospizio di Torre Pellice, ma, venimmo poi a sapere, che ella si suicidò ingerendo nella notte delle pastiglie di barbiturici.

Quando vennero i carabinieri noi avevamo già raggiunto Rorà, a circa 1000 metri nelle Valli Valdesi dove Mario aveva affittato una casetta con il nome di Olearo.

La mamma con Giulia era ritornata a Coazze, anche a Torino c’erano stati i carabinieri a cercarle ma la portinaia le aveva avvisate.

A Rorà mi rinfrescai, trovai le violette fiorite vicino alla porta di casa, era un paesino esposto al sole, circondato da alti monti maestosi e bellissimi, quasi sempre coperti di neve. Era un po’ isolato (ora la strada è asfaltata e c’è una corriera da Luserna) senza mezzi di comunicazione, con un solo negozio, due chiese (quella Valdese e quella Cattolica}, la scuola elementare composta di due stanze con una decina di scolari in tutto, il Municipio con la buca delle lettere e il postino che ogni giorno percorreva a piedi, prendendo le scorciatoie della montagna, circa una ventina di chilometri tra andata e ritorno da Luserna S. Giovanni.

Tutto lassù era statico, la vita scorreva come se non ci fosse stata la guerra e il tempo si fosse fermato trent’anni prima. Che sollievo! I padroni di casa portavano le mucche al pascolo e ci davano ì1 latte; il postino ci fece avere le tessere annonarie e avemmo così un po’ di farina che portavamo al forno, una volta alla settimana, e ci veniva consegnato l’equivalente di pane. Comprammo due galline per avere delle uova e più tardi anche qualche coniglio.

Imparai così a fare la massaia rurale e mi sentivo ricca quando vedevo nella dispensa le patate, le mele e le castagne acquistate nel posto.

Ero felice con Mario in quell’eremo di pace, nelle lunghe serate si leggeva e discuteva. Leggemmo ·«Un momento a Pechino» e «L’importanza di vivere» di Lin Yu Tan; Mario mi raccontò della sua vita e della sua scelta politica e incominciai a farmi un’idea di che cosa fosse il socialismo.

Mio padre, che era stato commerciante, aveva anche tenuto per diversi anni un negozio di tappeti persiani e oggetti orientali, aveva sempre considerate gli operai e specialmente i comunisti come la feccia cioè il gradino più basso della società.

lo allora capii che si trattava appunto di aiutare queste masse ad elevarsi, a vivere una vita più civile; bisognava togliere i privilegi e le sperequazioni per il bene di tutti, insomma il socialismo voleva dire fare giustizia; era l’interesse,il capitale, che generavano le guerre.

Intanto a Rorà incominciarono ad arrivare alcuni giovani, erano soldati sbandati, fuggiaschi, alcuni di quelle valli, altri delle più lontane regioni d’Italia. Molti provenivano da diversi fronti, altri erano di leva ma tutti avevano il desiderio di farla finita con la guerra inoltre c’era il problema di sopravvivere senza venire catturali dall’esercito tedesco. che in quel momento occupava tutta l’Italia settentrionale e cercava uomini per le sue armate.

Questi giovani arrivavano soli o a gruppi, stanchi, spaurili ed affamati, ma con loro vi erano degli ex ufficiali e dei compagni coscienti, perseguitati o braccati perché antifascisti, che avevano altre lotte alle spalle, come Pietro Comollo, Pompeo Colajanni, Ludovico Geymonat, Vincenzo Modica, il Capitano degli alpini Di Nanni, Mario Levi e altri che li organizzarono, istruirono e formarono dapprima il 4° Battaglione Garibaldi, deciso a lottare contro l’invasore straniero e fascista e costruire un’Italia libera e più giusta.
Un po’ alla volta si formarono veri distaccamenti nei luoghi più strategici e sicuri della zona. Alla Galiverga, alla Bordela, a Pian Frulè, a Pian Prà, agli Uvert e a Rocca Rossa. Man mano che il numero dei partigiani aumentava si allargava la loro zona d’influenza e si formò la 105ª brigata Garibaldi «Carlo Pisacane» guidata da Petralia (Vincenzo Modica), Gioanin Dagot (Giovanni Abate Daga), Marco (Franco Montagnana), Romanino, Alberto, Siringa, Dante (Negro), Ulisse (Ferrero), Genova, Venezia, Oscar (Giovanni Borca), Tolone, Ezio (Besson), ecc.

I partigiani erano tutti belli, ne ricorderò solo qualcuno, Marco dagli occhi azzurri, Romanino con le lunghe chiome al vento, Alberto con la barba e gli occhi nerissimi, poi Ezio, Ombra, Venezia e Balilla (Ferrarin Dino il più giovane di 17 anni).

Alla sera alcuni venivano a casa nostra per discutere, imparare, orientarsi, sentire. Mario apriva la grande carta geografica dove avevamo segnato tutto il fronte della guerra, si leggevano i giornali clandestini, ci si trasmetteva le notizie udite da Radio Londra e si facevano i commenti e le previsioni seguendo sulla carta le varie avanzate o ritirate.

lo avevo una macchina da scrivere portatile (regalo di nozze di mio fratello ) e avevamo fatto un giornalino di poche pagine La Rocca Rossa dove, oltre a qualche canzone partigiana es: «La guardia rossa», scrivevo qualche notizia e articoli su come doveva essere l’Italia, quella nuova, la futura società e l’uomo comunista. Ne facevo qualche copia con la carta carbone e lo distribuivo ai partigiani.

Un giorno alla Vagera (così si chiamava la nostra casa) venne anche Emanuele Artom, era un giovane esile, con le mani fragili degli intellettuali, era professore, aveva passato quasi tutti i suoi 28 anni chino sui libri. Ora era fiero di stare con i partigiani, di dividerne le lotte, i disagi e le fatiche, era commissionario politico G.L. (Giustizia e Ubertà). Chiacchierammo a lungo in amicizia, purtroppo non lo vidi più.

La cittadina era diventata una roccaforte, una piccola repubblica partigiana, libera dai tedeschi che temevano di avventurarsi su quelle montagne.

Diverse famiglie ebree trovarono pure rifugio in case isolate della zona e comprensione e amicizia da parte della popolazione. Erano le famiglie Debenedetti (Roncati), Terracini (Ferraguti), Levi (Olearo). Le sorelle Amar, le sorelle Bachi e al Rumè la famiglia Levi- Sacerdote il cui figlio maggiore Geo, di 17 anni, entrò nella formazione G.L. della quale era commissario Emanuele Artom.

Sotto, nella pianura, regnava il terrore perché i tedeschi occupavano le scuole di Luserna e la caserma di Airali; ogni tanto facevano un rastrellamento nella zona sequestrando uomini che dovevano servire nel loro esercito oppure deportandoli in Germania.

Così le file dei partigiani si ingrossavano perché ogni tanto qualche giovane riusciva a fuggire al controllo tedesco e prendeva la strada della montagna.

A Rorà si era formata un’amministrazione popolare composta di due consiglieri rappresentanti la popolazione del luogo, Maurizio Tourn e Giacomo Morel, con i partigiani Mario Benedetto, Biasin, Romanino (Abruzzese Mario), il capitano degli Alpini Di Nanni e Tari (mamma Manara).

A Ponte Vecchio c’era il posto di blocco dove le sentinelle stavano sempre all’erta. Spesso, di notte, i partigiani scendevano a valle per fare delle azioni di sabotaggio all’esercito tedesco e, con dei colpi di mano, portavano via armi, munizioni, cavalli e viveri.

Parecchie volte distribuirono i viveri anche alla popolazione. Nella piazza di Rorà, i partigiani con i consiglieri davano ad ogni famiglia un pezzo di carne, della farina, dello zucchero e agli uomini un pacchetto di sigarette.

Con la farina si faceva il pane in un forno comune, aumentando così la misera razione della tessera di ognuno.

Bisognava però tenere il collegamento con il centro coordinatore di Torino, il C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale), bisognava che i partigiani leggessero la stampa clandestina e le loro famiglie, almeno alcune di Torino, avessero notizie.

lo andavo a Torino una volta alla settimana per fare delle commissioni (acquisti di sale in cambio di burro, prelevare in banca gli ultimi soldi ecc.). La 105ª Brigata Garibaldi mi diede l’incarico di tenere il collegamento.

I treni funzionavamo male ed erano pericolosi per i bombardamenti e per i controlli dei tedeschi così, spesso, scendevo da Rorà andando a Pian Prà e poi giù dall’inverso della montagna. Arrivavo a Torre Pellice dove, al mattino presto, c’era il camion della Ditta Mazzonis che portava a Torino le pezze di stoffa. Salivo sul camion carico, mi sedevo sopra ad una cassa e arrivavo a Torino semi-assiderata.

Al posto di blocco aprivo la mia borsa e facevo vedere il contenuto cercando di essere disinvolta. In quella borsa, sotto la fodera interna c’erano le lettere per le famiglie dei partigiani e i comunicati della brigata. Le lettere le portavo in via Ormea, in una portineria, poi andavo all’appuntamento con Adriana o con Vittoria.

Le incontravo per via, nel posto fissato, ci salutavamo per nome e scambiavamo le buste o i pacchetti. Una volta ebbi un appuntamento con Luca (Ludovico Geymonat) al caffè Piatti; ricordo il tavolino accanto alla vetrina sul corso Re Umberto, ci salutammo, prendemmo una consumazione e ritirai la stampa.

Era il gennaio 1944, una sera ritornai da Torino con il treno fino a Luserna poi mi incamminai per salire a Rorà. Nevicava e man mano che camminavo la neve aumentava e sprofondavo già fino al ginocchio. Era buio, freddo, e non ce la facevo più a salire e la strada era ancora lunga. Allora, come nelle favole, vidi una debole luce filtrare da una porta e bussai. Mi aprirono, era una stalla dove alcuni montanari seduti su delle panche chiacchieravano tra loro prima di andare a dormire. Mi invitarono a sedere ed a bere con loro. Andai poi sopra dove c’era una grande camera che era tutto l’appartamento. Una donna mi ospitò nel suo letto; probabilmente presi il posto del marito che dormì in un sofà con una ragazzina che prima fece addormentare un bambino agitando una grande cuna di legno. Al mattino presto l’uomo si alzò, accese la stufa ed andò nella stalla a mungere le mucche poi gettò la farina nell’acqua che bolliva e fece la polenta pestandola con un lungo bastone. Tutti mangiammo una scodella di polenta e latte.

Al mattino c’era il sole, ringraziai e salutai quella gente semplice e ospitale e ripresi la strada per Rorà dove Mario mi aspettava ansioso.

Un altro giorno che ero scesa a Torino camminavo per via Roma, avevo nella mia famosa borsa, sotto alla fodera, delle fotografie dì partigiani che portavo a stampare. Feci alcuni acquisti alla Standa poi, passando davanti al famigerato Albergo Nazionale, la sentinella mi ferma e mi chiede: «Che cosa c’è in quella borsa?» lo svelta l’apro e: «Ho comperato una spazzola per lavare, vuole guardare?» e il soldato mi fa cenno di andare.

Passa poi nel centro della via a passo di corsa un battaglione di camicie nere, con stivaloni di cuoio, cantando: «Battaglioni della morte, battaglioni della vita …» Un milite mi guarda, mi sorride e saluta: «ciao bella». lo pensai ai partigiani con le scarpe rotte, vestili alla bell’e meglio, che si procuravano le armi con colpi di mano e mangiavano patate.

L’Italia era divisa in due, i fratelli erano contro i fratelli e purtroppo c’erano anche dei giovani fascisti in buona fede! Molti però incominciavano a capire l’assurdità della ricomposizione del fascismo che stava portando l’Italia alla distruzione, poi Mussolini aveva fatto proprio la figura del vigliacco; così i giovani affluivano sempre più numerosi nelle vallate montane e chiedevano dei comandi partigiani.

Un mattino arrivò anche Walter Rossi, aveva 19 anni, era alto ma ancora un ragazzo, l’accompagnavano il babbo e la mamma. Questi coniugi, cugini di mia madre, erano anch’essi ebrei, il marito era uno dei figli della zia Fausta, quella che aveva ospitato la mia famiglia nel lontano 1915. Avevano questo unico figlio e la guerra li aveva già colpiti distruggendo con delle bombe incendiarie il laboratorio di orologiaio che avevano in via Po, degli spezzoni incendiari avevano poi, in un altro bombardamento, incenerito i mobili della loro casa che era situata all’ultimo piano di via Mazzini 34. Si erano allora trasferiti a Ferrara, dove viveva il fratello Mario, ma anche qui i feroci rastrellamenti si susseguivano e non era più sicuro rimanere. Avevano così deciso di partire nuovamente e andare a Torre Pellice, dove c’era l’altro fratello Emanuele. Si erano sistemati in una camera umida e fredda situata all’inverso della montagna e stavano molto ritirati. Sapevano tutti che su, nella cima della montagna c’erano i partigiani che di notte scendevano e facevano i colpi di mano. Ogni tanto saltava un ponte o un treno carico di munizioni per sabotare la guerra, ma nessuno li vedeva ed i fascisti con i tedeschi pensavano fossero molti, bene armati e non osavano affrontarli.

Walter non volle continuare a stare nascosto, decise di rendersi utile e disse ai genitori che voleva salire la montagna e andare con i partigiani.

E giunsero tutti e tre, camminando sulla neve, quel mattino di febbraio nella mia casa di Rorà.

Presentai Walter a Marco, il giovane comandante del distaccamento garibaldino (Franco Montagnana). Questo lo accolse fraternamente, per il suo carattere dolce e un po’ timido, venne assegnato all’infermeria (nella Villa Agradi, sulla strada per Pian Prà); cosi Walter Rossi, con il nome di Zanzara, si arruolò nel Corpo Volontari della Libertà, contento e fiero di partecipare anche lui alla lotta di liberazione, e i genitori ritornarono al loro rifugio di Torre Pellice attendendo.

E venne il 21 marzo 1944, quella mattina il paesino dormiva ancora immerso nel silenzio della neve quando il crepitio sordo e ritmato dei parabelli diede la sveglia a tutti.

Una colonna tedesca aveva attaccato il posto di blocco di Ponte Vecchio decisa a salire a Rorà per snidare e rastrellare i partigiani.

Questi difesero eroicamente le loro posizioni, fecero saltare la strada con le bombe a mano ma i tedeschi, con i fascisti repubblichini, segarono gli alberi e ripristinarono la strada per Rorà facendo un ponte con i tronchi, sul quale passò la colonna nemica composta di camions con mitragliatrici, un cannone e un carro armato.

La battaglia era impari, i tedeschi con i fascisti erano in molti, bene armati e riuscirono a sfondare.

Morirono diversi partigiani tra i quali il leggendario Ulisse (Ferrero) che precipitò da un’alta roccia (che ora chiamano la rocca di Ulisse) nel torrente Luserna, dopo aver sparato fino all’ultima cartuccia, alcuni vennero latti prigionieri poi deportati o fucilati. Gli altri dovettero ritirarsi risalendo la montagna ancora coperta di neve, cercando di nascondersi nelle grotte, tra gli alberi e le rocce.

E i tedeschi con i fascisti entrarono a Rorà, installarono il carro armato nella piazza e puntarono il cannone verso la montagna.

Ricordo il rimbombo cupo del cannone che cercava di colpire i partigiani in ritirata. Poi i tedeschi iniziarono il rastrellamento, entrarono in tutte le case, fecero uscire tutti gli abitanti mentre i fascisti rubavano tutto ciò che potevano, anche la carrozzina di un bimbo venne presa e riempita di salami, formaggi, bottiglie ecc.

La mia casa si trovava un po’ sopra il paese e, prima che arrivassero i tedeschi, riuscii a nascondere in una botola nel soffitto l’infermiera dei partigiani (Anna Barbero) che era scappata dall’infermeria, Walter Rossi, che aveva in custodia due partigiani feriti, era rimasto.

Giunsero poco dopo i tedeschi, scopersero l’infermeria, catturarono i tre partigiani e diedero fuoco alla casa.

Conobbi veramente la guerra quel giorno, l’orrore degli uomini che hanno perduto ogni sentimento umano e si accaniscono sui propri simili.

Vidi Zanzara con i due partigiani feriti (uno dei quali ad una gamba che non riusciva a camminare) venire giù per la strada di montagna spinti dai fucili dei fascisti che sghignazzavano insultandoli, sputacchiandoli e prendendoli a calci, vidi la vigliaccheria dell’uomo che si sente forte perché armato e usa violenza sull’inerme e sul ferito.

Tutta la popolazione venne poi allineata lungo il muro del cimitero e ad ognuno venne chiesto dove erano i banditi, poi chiusero tutti nelle due aule della scuola e là, sui banchi, passammo la notte.

Al mattino mandarono le donne a casa a preparare da mangiare e gli uomini vennero radunati in piazza. I giovani non c’erano, il pastore valdese si era nascosto sotto alla chiesa; don Ettore (l’allora parroco) si presentò ai tedeschi dicendo che lui voleva rispondere per i suoi parrocchiani, ma non gli diedero retta. Formarono un gruppo di uomini con i quali andarono a prelevare le mucche nelle stalle e le caricarono sui camions; un altro gruppo di uomini doveva portare i tedeschi alle basi dei partigiani. Caricarono le armi e le munizioni sulle spalle di alcuni e mettendo i montanari davanti intimarono di andare.

Anche Mario (Olearo) venne preso e per due giorni camminarono inutilmente sulla montagna e dormirono nella cantina della caserma di Luserna.

I tedeschi bruciarono una sessantina di case della zona e fecero alcuni prigionieri (tra i quali Emanuele Artom e Geo Levi). Mario ritornò stanco e malato, si mise a letto con il mal di schiena per i pesi che gli avevano fatto portare e per i disagi; ma era già un bene che fosse tornato, non l’avevano riconosciuto e nessuno aveva fatto la spia! Nessuno aveva portato i tedeschi alle basi, nessuno aveva tradito i partigiani.

Alcuni giorni dopo scesi a Luserna e andai alla scuola di Airali, dove c’era il comando tedesco e raccontai che durante il rastrellamento avevano rubato la macchina fotografica di mio marito e diversi altri oggetti. Vidi così Walter nel cortile che scopava, era pallido, magro, sporco ma dignitoso, mi guardò ma non disse nulla per non tradirmi. lo avevo nella borsa un panino ma vigliaccamente non ebbi il coraggio di darglielo; in quelle cantine avevano portato anche Emanuele Artom.

Purtroppo non potevo fare nulla per loco, seppi più tardi che dopo aver subito torture e maltrattamenti Zanzara venne fucilato a Pian del Lot (Colle della Maddalena) il 2 aprile 1944, anche Emanuele Artom morì, si disse sotto le torture, ma il suo cadavere non venne mai trovato, e’ è chi pensa sia andato in pasto ai cani.

Anche a Torino regnava il terrore, bombardamenti, rastrellamenti e deportazioni quasi ogni giorno. Mio zio Gino Rossi con la moglie era rimasto in città, aveva avuto la copisteria, con l’alloggio in via Saluzzo, distrutta dai bombardamenti mentre era nel rifugio. Aveva raccolto quanto era recuperabile e si era trasferito in una camera in un cortile di corso Valentino, ora corso Marconi. Era malfermo in salute\ faceva fatica a camminare sulla collina, aveva perciò deciso di non sfollare: «andrò nel rifugio poi qui non mi conoscono, Rossi è anche un cognome ariano, metterò sulla porta il nome della zia» – ci aveva rassicurato.

Ma un giorno il 7 aprile del 1944 mentre stava scrivendo a macchina e la zia era uscita per le spese, si fermò un taxi al portone di casa e scesero dei soldati tedeschi. Entrarono, lo presero così senza giacca, presero pure la macchina per scrivere e lo caricarono sul taxi.

Quando arrivò mia zia i vicini le raccontarono l’accaduto, lei allora corse a tutti i posteggi di taxi, interrogò tutti e riusci a trovare l’autista che era andato in corso Valentino che gli raccontò di aver portato lo zio all’Albergo Nazionale in via Roma. Il famigerato albergo dove risiedeva il comando tedesco.

Qui lo zio Gino venne picchiato, interrogato e poi incarcerato alle Nuove. La zia riuscì a fargli avere una maglia di ricambio poi quando seppe che era stato trasferito si recò a Fossoli, nel campo vicino a Carpi di Modena, dove convogliavano gli ebrei che partivano per la Germania. Riuscì a vederlo, a salutarlo attraverso il filo spinato e a dargli un pacco. Lo zio Gino il 4 aprile 1944 partì per Auchwitz in quei tremendi carri bestiame, dopo la guerra, da un reduce signor Pavia, seppi della sua fine nel forno crematorio il 6 agosto di quell’anno.

Altri rastrellamenti seguirono e i partigiani dovettero ancora salire sull’alta montagna e nascondersi negli anfratti e nelle grolle che già anticamente furono rifugio dei Valdesi perseguitali. Per qualche tempo la 105ª brigata si disperse.

Dopo il 21 marzo era rimasto unito solo un piccolo gruppo di 22 compagni che ripresero l’opera di riorganizzazione della base. E i partigiani ritornavano, ammalati, stremati, dopo essere stati immersi nella neve senza mangiare. Anche Oscar (Giovanni Borea) ritornò dopo essere stato «fucilato» e ci raccontò di Zanzara, dei compagni morti e come lui si fosse salvato (la pallottola l’aveva colpito solo di striscio alla testa e lui era caduto a terra svenuto con i compagni, poi, nella notte era rinvenuto ed era fuggito; dopo essersi fatto medicare all’ospedale di Luserna, era ritornalo alla brigata).

Quante volte misi sul fuoco il paiuolo per fare la polenta e diedi delle calze, magari rammendate, a quei ragazzi. Oscar dormì per un certo periodo a casa nostra, doveva riprendersi dallo choc subito poi il Partito ci mandò un altro partigiano da ospitare. Una volta venne da noi il padre Durand, detto il Titti, che era il nostro padrone di casa, era preoccupalo e ci disse: «Ma perché ospitano questa gente? non hanno mica bisogno di guadagnare, a me mi bruciano la casa! » – il vecchio montanaro non capiva che si doveva anche rischiare – senza guadagnare – per la libertà.

Veramente altri nella zona lo capivano e andando in alcune case, da magna Albertina, dalla mamma di Laura e Nella, dalla Reita ecc. ricevevamo delle uova, delle calze di lana fatte a mano e delle vecchie lenzuola per fare delle bende ecc. Anche la maestra Evelina Pons veniva con me e per Pasqua regalammo ai partigiani delle uova sode colorate, una fetta di dolce, un paio di calze dove dentro c’era anche un bigliettino d’auguri scritto dalla ragazza che le aveva fatte.

Avevamo stabilito un collegamento con il «gruppo di difesa della donna» che, diretto da Frida Malan, operava a Torre Pellice.

Una volta entrarono svelti a casa mia due partigiani, erano male in arnese, le scarpe rotte ed uno era anche senza calze. Sulla stufa bolliva il paiuolo con la solita polenta, Ombra e Ezio si lasciano cadere un attimo sulle sedie vicine al fuoco e offriamo loro un bicchiere di vino; «Fermatevi a mangiare un boccone» – «Grazie, ma dobbiamo andare, abbiamo fatto un’azione stanotte a Torre» – e si alzarono – «aspettate un momento» e corsi a prendere un paio di calze di Mario – «mettile». Ombra prese le calze e le infilò in una tasca della giacca, nell’altra mise due pere che gli avevo offerto, mi sorrise poi, con il compagno che mordeva già le sue pere, se ne andò con un cenno di saluto.

Ero rimasta un po’ contrariata «che furia» possibile che non potesse neppure infilarsi un paio di calze?

Ritornai al mio paiolo che bolliva e altri passi risuonarono sul selcialo, – «sta’ a vedere che ritornano per mangiare» – pensai – e mi volsi alla finestra, ma questa volta vidi dei fascisti con il mitra puntato. «Mario, sono qui!» Mio marito si mise contro il muro e quelli spalancarono la porta nascondendolo.

«Dove sono i banditi?»- «qui non c’è nessuno, entrate, guardate …» sentii la mia voce senza colore ma cercai di sorridere mettendomi davanti all’uscio aperto.

«Delinquenti, scappano sempre» – borbottarono i due figuri gettando uno sguardo all’interno poi, una voce secca e gutturale dal di fuori li chiamò: «Venite, per di qua» – e i due uscirono correndo al comando del tedesco e si diressero in un’altra direzione.

Restammo per un attimo immobili, sfiniti, senza dire una parola poi riuscimmo a ridere abbracciandoci. (Purtroppo Ombra, il partigiana dagli occhi scuri e ridenti, in un’altra azione svolta più tardi in pianura venne catturato e fucilato).

Ricordo che un altro giorno vennero alla Vagera tre soldati tedeschi, avevano salito la montagna da Torre Pellice e cercavano i partigiani, entrarono, sedettero e ci chiesero delle informazioni. Mario, appena visti dalla finestra i tedeschi, si era messo sulla sedia a sdraio con una coperta sulle gambe, dissi loro che era infermo, che la nostra casa a Torino «kaput» poi offrii da bere del vino. I tedeschi però, prima di bere, fecero cenno a me di bere per prima; avevano paura, non si fidavano, poi chiesero da mangiare. lo misi sulla tavola della polenta: «solo polenta, sempre polenta mangiate voi italiani!» allora ritagliai con il coltello un cavolo, misi dell’aceto e offrii i crauti, così andava meglio. Poi sforzandomi di essere gentile chiesi loro: «Stanchi?» – ed uno fermo mi rispose : «Ci riposeremo dopo la vittoria!». Dopo un po’ si alzarono diedero un’occhiata in giro, aprirono tutte le porte poi se ne andarono.

Era terribile vedere quegli uomini bene equipaggiati, freddi, sicuri della vittoria, erano dei fanatici che non capivano la nostra lotta di poveri diavoli per la libertà.

lo continuavo a tenere il collegamento con Torino e nel dicembre 1944 Mario decise di andare giù con me per due giorni. Non si era più mosso, da quando una volta l’avevano fermato e l’aveva fatta franca per un caso; ma ora volevamo comperare per Natale un regalino per la bambina dei nostri padroni di casa.

Un compagno (Gattei) ci diede le chiavi di casa sua per andare a dormire a Torino. Giunti in città facemmo le nostre compere, riuscimmo anche a riposare in quella città devastata poi il giorno dopo andai al mio appuntamento e ritirai il pacco di stampa clandestina, quella volta era piuttosto voluminoso e stava appena nella borsa, andammo poi a prendere il treno per il viaggio di ritorno.

A Bricherasio il treno si arrestò e ci dissero che non avrebbe più proseguito perché i tedeschi avevano istituito un posto di blocco. Io avevo quel famoso pacco e dovevo assolutamente sbarazzarmene. Scesa dal treno vidi vicino alla stazione un muretto di pietre un po’ sconnesso, coperta da Mario nascosi sotto alle pietre la stampa clandestina poi, liberi e leggeri, andammo all’albergo per dormire quella notte; al mattino ci saremmo incamminati a piedi per Rorà.

Eravamo ancora a letto, forse erano solo le sei, sentiamo dei passi pesanti e dei colpi alla porta. Mario va ad aprire, dei soldati tedeschi entrano decisi, aprono armadi e cassetti, ci chiedono i bagagli e i documenti (io ero coricata e non osavo uscire dal letto in camicia da notte), girano ancora per la camera poi se ne vanno.

Avevano installato il comando tedesco della zona proprio in quell’albergo e stavano facendo dei rastrellamenti.

Anche quella volta l’abbiamo scampala bella!

Ci vestiamo, saldiamo il nostro conto e usciamo; ritornai al muretto, presi guardinga il mio pacco che era ancora là sotto alle pietre, lo misi nella borsa e ci mettemmo in cammino. Giunta a Rorà feci subito la consegna poi rientrammo nella nostra casetta, ma quale disastro!

La porta era spalancata e dentro era tutto sottosopra; delle scatolette aperte e vuote di carne o altro erano per terra ovunque.

Trovammo perfino la valigetta con il diploma di licenza liceale di Walter Rossi che aveva sopra il timbro «di razza ebraica» aperta e rovesciata per terra.

Durante la nostra assenza i tedeschi avevano fatto un rastrellamento, gli stessi che poi scesi si erano installali a Bricherasio, avevano bivaccato, buttato tutto all’aria, tirato fuori anche quella valigetta che avevamo nascosto sotto ad un armadio, ma fortunatamente non avevano capito nulla e non avevano bruciato la casa! E la guerra continuava, dolorosa, assurda. Torino era una città piena di rovine con una popolazione sfinita. C’era ancora chi aveva tutto e si arricchiva facendo la borsa nera ma la maggioranza soffriva la fame.

L’esercito repubblichino, forte dell’appoggio e aiuto tedesco, percorreva baldanzoso le vie della città, rastre11ando, uccidendo e impiccando. A centinaia sono i cittadini fucilati e lo attestano le lapidi a ricordo messe poi sui muri delle case di Torino.

Ma tutto il popolo si unì in questa lotta di liberazione, si combatté sulle montagne ma anche nelle fabbriche, nelle scuole, nei posti di lavoro e nelle case si organizzava la resistenza; la lotta del popolo per la sua libertà ebbe il sopravvento e i partigiani al comando del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) scesero dalle montagne e giunsero da tutte le valli.

I tedeschi ed i fascisti loro servi furono sconfitti, molti vennero fatti prigionieri, altri fuggirono, alcuni si nascosero e i cecchini dai tetti delle case spararono le ultime cartucce sui cittadini inermi e vi furono ancora morti. Vi fu pure chi all’ultimo momento si mimetizzò e passò nelle file dei partigiani, purtroppo i vigliacchi vanno sempre con il più forte.

Il 25 aprile 1945 le campane di Rorà suonarono a distesa, lungamente, come impazzite dalla gioia echeggiando per tutta la valle. Tutti uscimmo dalle case, ridendo e piangendo, ci salutammo e abbracciammo, questa volta la guerra era veramente finita.

Nella locanda del Frioland suonava la fisarmonica e ci invitarono a bere: «Monsù Olearo, questa la deve ballare!» e suonarono «Bandiera rossa» per Mario e per me; finalmente sentii che potevo cantare! Quello fu il giorno più bello della mia vita, finalmente avremmo potuto avere un figlio e dargli il nostro nome, sarebbe nato libero, senza temere per la sua vita.

Il pastore ci invitò pure ad una manifestazione pubblica che tenne nella Casa Valdese, per tutti gli ebrei che si erano rifugiati in quella valle e che ora potevano nuovamente far parte del consorzio umano e presentarsi liberi con il proprio nome.

Per il I maggio non potei trattenere Mario, già dal giorno prima era andato a Torino in bicicletta per sfilare nel corteo dei lavoratori. «Sono 25 anni che aspettavo questo giorno!» mi disse salutandomi.

lo sfilai con i compagni Rosmino, Ferraris e Fantone, accanto alla bandiera rossa della sezione comunista di Luserna S. Giovanni, fiera e orgogliosa, non avevo forse contribuito anch’io alla sua formazione?

[…]

Ritornammo a Torino, una città che in cinque anni di guerra aveva subito bombardamenti, deportazioni e miseria; le ferrovie, le scuole, gli ospedali erano in parte distrutti e mancavano abitazioni. l partigiani però erano riusciti a salvare le fabbriche che i tedeschi in fuga avrebbero voluto far saltare e vi era in tutti un desiderio di fare, di lavorare, si era finalmente in pace, la vita doveva essere più serena nella democrazia.

Il denaro che avevamo in banca era ormai consumato e provvisoriamente ci sistemammo in una camera ammobiliata con uso di cucina, che ci offrirono degli amici in corso Dante e mi misi in contatto con i compagni del Circolo Carlo Marx alla Barriera di Nizza dove operava il Comandante partigiano Battistini con la sua compagna Gina.

Intanto incominciai a cercare un alloggio, volevo che il bambino che avrebbe dovuto nascere in febbraio avesse una casa. Girai la città per tre mesi, seguendo le inserzioni sul giornale e infine, in gennaio riuscii ad affiliare un alloggetto di tre camere in via S. Donalo; era decoroso e costava mille lire al mese, era un prezzo elevato ma non c’era molta scelta e poi Mario ora lavorava! Con un camion andai a S. Sebastiano Po, dove Mario aveva fatto immagazzinare i mobili di casa sua quando era partito per l’internamento; ma purtroppo in tutti quegli anni c’era stato chi si era servito, trovai ben poca roba, non c’era più la camera da letto con i materassi e neppure la sala da pranzo. Ricevetti due reti e i materassi da una zia dì Mario, un armadio e altre cose da mia madre e così ammobiliammo, con il puro necessario, due camere e la cucina e il 20 febbraio 1945 nacque Fiorella la mia prima desiderata e bella bambina.

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