Premessa
Sotto il titolo “Testimonianze oltre il ponte” i numeri 7 e 7A dei Quaderni sulla Resistenza in Val Pellice riportano una lunga serie di testimonianze rese da un piccolo gruppo di partigiani che hanno militato nelle formazioni garibaldine dell’alta Val Luserna. Il ponte a cui fa cenno il titolo è quello che unisce i due versanti del Pellice all’altezza di Luserna San Giovanni, tra le frazioni di Airali e Luserna Alta e che permette di accedere appunto alla Val Luserna.
Occupata in un primo tempo da formazioni spontanee di giovani renitenti alla leva che arrivavano dalla pianura e dall’area di Torino che si richiamavano genericamente al movimento Giustizia e Libertà, la valle fu in seguito occupata stabilmente dalle formazioni di Pompeo Colajanni “Barbato” e Vincenzo Modica “Petralia” organizzate allora nella 4ª Brigata della 1ª Divisione Garibaldi “Carlo Pisacane”, la futura 105ª Brigata d’assalto, che vi trovarono rifugio dopo il duro rastrellamento tedesco del dicembre 1943.
Le testimonianze pubblicate sui Quaderni sono “ricordi” scritti in piena libertà dai protagonisti, manoscritti o dattiloscritti i cui originali sono andati perduti, fatti pervenire ai curatori dei Quaderni grazie all’interessamento e, immaginiamo, alle sollecitazioni di due protagonisti molto attenti alla conservazione della memoria, Renzo Sereno, all’epoca presidente della sezione ANPI di Luserna San Giovanni, e Vittorio Rostan, comandante di uno dei distaccamenti della Brigata.
Tra i contributi emergono quelli, numerosi, di Luigi Negro, il partigiano “Dante”, comandante di distaccamento e commissario di guerra.
Ricerca triennale delle classi
a.s. 1997-’98: 1^ B/IGEA e 5^ B/PNI
a.s. 1998-’99: 1^ A/IGEA e 4^ A/Op.Tur.
a.s. 1999-2000: 2^ A/IGEA e 5^ A/Op.Tur.
dell’Istituto Tecnico Statale Commerciale e Professionale per il Turismo “L. B. ALBERTI” di Luserna S. G. e Torre Pellice
Coordinata dai Proff. Luigi Bianchi e Marisa Falco
Qui il sito originario
Qui abbiamo raccontato la storia dei Quaderni
Leggi il testo qui di seguito o vai all’opuscolo originale.
La Val Luserna e la Mugniva
Testimonianza di Luigi Negro “Dante”, comandante di distaccamento
La Val Luserna, all’altezza del Pontevecchio, (quanti Pontevecchio ci sono in Italia a cominciare da quello di Firenze?), si biforca. Una strada ampia e percorribile verso Rorà, incontrando alcuni insediamenti, oltre a case isolate o quasi.
Non mancano le chiesette, in questo caso valdesi.
A Rorà c’è anche quella cattolica e nel locale cimitero la separazione per le opposte fedi religiose e, come vedremo in seguito, la risoluzione della sepoltura dell’aviatore canadese caduto con l’apparecchio nella zona e di cui non si conosceva l’appartenenza religiosa.
Si prosegue poi per un paio di chilometri ancora fino a Pian Prà, spartiacque con la Val Pellice. Zona turistica, o quasi, qualche villetta e seconde case. Più tardi vi furono insediamenti di distaccamenti Garibaldini ed alcuni G.L.
Sorpassando verso sinistra il ponte, si entra in una valle stretta, di montagna veramente, una strada stretta, non transitabile da auto per le profonde rotaie lasciate dai carri che trasportavano a valle le lose, la pietra di Luserna, usate per i marciapiedi, selciati, pavimentazioni. Costeggia il torrente, non molto largo con qualche ‘tumpi’, cioè conche larghe e profonde, pieno di trote, dicevano. Mai presa una!
Lungo questa strada si incontrano alcune case e grange, e anche una scuola con poche aule, che si diradano ancora andando più avanti. Ogni tanto uno slargo, prato o con seminato qualcosa…
Sui fianchi, più che piccole valli, sentieri che si inerpicavano verso altre grange. Vegetazione praticamente già di montagna.
Si giunge alla Mugniva ove iniziava la salita vera e propria verso la Galiverga, base dei minatori. Vi era una grangia abbastanza ampia, ben fatta, con pianterreno e primo piano, di fianco un locale più piccolo, uso stalla, per attrezzi.
Veniva da domandarsi come queste costruzioni potessero stare in piedi, costruite solo con blocchetti di pietre irregolari e senza praticamente calce.
A vedere come costruivano queste grange c’era da rimanere strabiliati.
Portavano alla base mucchi di pietre alla rinfusa, grandi e piccole, non squadrate: nessun criterio di grandezza, sfaccettatura o altro.
Dal mucchio il blocchetto veniva lanciato al muratore, che lavorava su una specie di ponteggio; lo prendeva al volo, uno sguardo e lo piazzava fra le altre pietre già sistemate…
l tutto a una velocità sostenuta, se da sopra ogni tanto un urlo: “Sbrigatevi, pelandroni!”.
Peccato non averlo potuto filmare: un mestiere che sta scomparendo. Il pavimento del piano superiore in assi di legno appoggiati al muro. Tetto naturalmente di lose. Attorno un piccolo spazio erboso e naturalmente il ruscello.
Nei primissimi giorni del gennaio 1944, reduci dal combattimento della Prabina, ove caddero i primi nostri compagni, Venturelli e Monetti, e anche reduci dal Capodanno più dietetico della nostra vita a Pian Pourcel, piuttosto affamati, scendemmo verso la valle, all’altezza della centrale elettrica, più sopra la diga che l’alimentava.
Piena di pesci. Mai beccato uno! Si traversò il ponte verso sinistra.
Non incontrammo quasi nessuno nelle case. Non sapevano chi eravamo e da dove venivamo e, logicamente… prudenza.
In seguito si fece presto a conoscerci e fraternizzare.
Questa valle dava una sensazione strana. Ci si sentiva, come dire? liberi; si respirava aria di libertà.
Come se fossimo accolti da nostri predecessori.
Forse era geologicamente protettiva, adatta al guerrigliero.
Mai la valle fu occupata dai ‘nazi’, se non per qualche puntata o poche ore durante i rastrellamenti. Divenne regno assoluto dei partigiani.
Si aveva la sensazione di non essere soli, di entrare in una storia infinita di battaglie e di guerre e di tragedie di cui si era la continuità. Era una terra che ti avvolgeva e ti proteggeva…
Pochi di noi conoscevano la storia di Valdo, il suo movimento popolare contro i privilegi di classe, le persecuzioni che subirono, che certo non si insegnano nelle scuole.
Una terra che per secoli aveva conosciuto quanto stavamo facendo e subendo noi partigiani e la popolazione del posto.
Perseguitati dai Papi e dai Savoia.
Movimenti di resistenza e di guerriglia.
Tragedie, torture, morte, case bruciate, deportazione.
Nulla di nuovo sotto il sole!!! Durò allora decenni. Solo motivi religiosi?
Se i motivi religiosi servono a mantenere ricchezza e privilegi, allora sì!! Eravamo poco più di trenta partigiani, con ‘Petralia’ e ‘Romanino’, ufficiali di Cavalleria e portavamo l’esperienza di un primo combattimento vero e relativi problemi, ma con una coesione data da un periodo di vita in comune, dal dolore della perdita di due dei migliori amici, dall’aver conosciuto il nemico.
‘La prova del fuoco’ aveva dimostrato che questi ragazzi erano motivati e sapevano combattere.
Furono la base della futura 105^ Brigata Garibaldi ‘Carlo Pisacane’. In seguito capisquadra di distaccamento o con compiti operativi delicati ed importanti.
Bisogna anche ricordare che di questo primo distaccamento i caduti furono moltissimi: a Torino giungemmo in meno di dieci a dimostrazione dell’impegno e della durezza del tipo di guerra combattuta e della convinzione di combattere una guerra giusta con un ideale di costruire un qualcosa di più giusto, anche socialmente. Tornando ai primi giorni della Galiverga, che era diventata la base del Distaccamento, cominciò ad arruolarsi qualche elemento locale, primo fra tutti ‘Tolone’, poi Nino Campasso, Piero Giacchero e altri ancora. Ricordo una frase di uno di noi che aveva capito tutto: “Adesso che il brutto è passato vengono a fare bella figura”. Ebbe tempo di morire in seguito in combattimento. Quando una formazione partigiana subisce un rastrellamento, deve lasciare la sua zona e si trova senza più collegamenti e avendo perso alcuni uomini. Specie agli inizi, diventava necessario riprendersi, ricompattarsi, e anche semplicemente tirarsi su il morale.
Agli inizi del 1944, poca esperienza, non fu facile superare quei momenti difficili. ma sono maturazioni che avvengono velocemente, e con la sicurezza di poter essere una forza radicata, non più estirpabile con radici forti, sicure, che avrebbero dato i frutti.
Dopo un breve periodo, si formò una base alla Bordella, sopra il bacino della centrale elettrica, di una squadra volante di cui facevo parte. Per missioni in pianura. La Galiverga era troppo lontana.
Nel mentre si ebbe un lancio con una trentina di sten, una novità per noi, bombe a mano, plastico esplosivo e qualche altro materiale.
Ci aveva dato fiducia, magari anche euforia per nuove armi e più efficaci. Dopo tutto questo, parliamo della Mugniva e se vogliamo della sua importanza, almeno nei due mesi del 1944.
La scelta del Comando di valle, (allora non era ancora denominata Brigata), era per la sua posizione strategica e geografica, per le funzioni che doveva avere.
Come detto, si trovava alla base dei pendii che portavano alla Galiverga e alle grange che si trovavano sui fianchi dei monti, dove si insediarono in seguito alcune squadre.
Un locale adatto alla bisogna. Nacque come base di smistamento, magazzino, deposito viveri e quanto altro si aveva.
La posizione logistica era perfetta.
Il tutto è che la Repubblica Sociale aveva chiamato alle armi le classi ’23, ’24, ’25. Le strade per i ragazzi di quelle leve erano poche: presentarsi, diventare partigiani o nascondersi e fuggire. Anche se quest’ultima possibilità non era semplice.
Quindi una massa di ragazzini arrivò nelle valli. Ragazzini della mia età, non avevano la minima idea di che cosa fosse la guerriglia partigiana, anche se molti di essi diventarono bravissimi combattenti, anche con gradi di comando.
E nemmeno i loro famigliari comprendevano cosa potevano essere nella realtà la vita ed i pericoli per i loro congiunti.
Per un paio di domeniche, decine di genitori giungevano al Pontevecchio: un appuntamento come per i figli in collegio.
Si dovette prendere provvedimenti, e qualcuno si lamentò.
In breve tempo la formazione gonfiò, arrivando a circa 450 persone. Per oltre la metà non c’erano armi a sufficienza.
Sorse il problema del vettovagliamento, oltre a dover formare le squadre.
Ma era difficile anche istruirli e guidarli; trovare dei capisquadra, gli anziani della Prabina erano pochi.
Si doveva dargli da magiare e vestirli: così nacque La Mugniva.
Verso l’inizio di Febbraio ricevo l’ordine da “Petralia” di lasciare la Volante ed organizzare la base, con magazzino e stalla, catalogare e smistare. Perché fossi stato scelto io non l’ho mai capito.
Se dicessi che ero incazzato nero direi poco, dalla Volante a magazziniere, …che carriera!
Siamo chiari, anch’io non è che capissi molto.
Mi assegnarono un partigiano calabrese che era bravo, ma doveva aver subito qualche trauma sul fronte di guerra. Un altro piccolino e gracile, faceva il
sarto, o almeno l’allievo-sarto. Aveva due occhioni e, non ridete, soffriva di emorroidi.
Pensai che quegli occhioni fossero dovuti agli sforzi per liberarsi.
Non è che fossi molto sveglio nemmeno io.
Poi un ragazzino, Walter Rossi, che aveva la mia età, ma era gracilissimo e troppo buono ed educato per la nostra vita.
Chiesi al Comando di togliermelo: si sarebbe potuto fare male.
Lo spostarono in una base verso Rorà, adibita ad infermeria!!!
Forse anche i nostri comandi non avevano le idee chiare di che cosa fosse la nostra guerra.
Un’infermeria!!! Per feriti ed ammalati, mah! Esperienza.
Fu catturato con un ferito, torturato e fucilato a Pian del Lot, sulla collina di Torino. Ancora oggi, al pensiero, mi viene un magone e un rimorso…
Se rimaneva con noi? In seguito non ci furono più infermerie.
I feriti o si tenevano in base con noi o si nascondevano in qualche buco, cioè in una cavernetta naturale.
Si lasciava una pistola e “Se ti trovano, cerca di farne fuori qualcuno, poi sparati.”
Di notte gli portavamo qualcosa da mangiare, di notte per non dar sentore che fosse nascosto qualcuno, e sempre di notte si cercava di curarlo.
Se gli veniva la depressione, come è di moda oggi, nessuno se ne preoccupava più di tanto.
Tornando a noi, la prima sera, appena piazzati, mi portarono una mucca. Macellarla, tagliarla, far razioni. “Verranno domani le squadre per il prelievo viveri”.
In tre ci guardammo in faccia. Il più esperto ero io.
Mio nonno aveva una vacca quando io ero bambino e gli avevo girato d’attorno. Gli altri nemmeno quello.
Poi ricordavo a Celle Ligure il macellaio con mattatoio privato e fuori di esso, su un roccione, vedevamo arrivare il vitello e poi uscire a pezzi.
Come? Non pensavo mi sarebbe diventato utile saperlo.
Sperai di trovare qualcuno più esperto. Difatti spuntò. Aveva lavorato da un macellaio a Torino, dopo le elementari: in un negozio, pulire il banco, scopare per terra, portare pacchetti e con un triciclo con cassone portare qualcosa più pesante dei pacchetti.
Tra io e lui ricordavamo che sparavano nella testa del vitello che crollava e con un coltello si tagliava e dissanguava. Ci avevano detto, non visto.
Ci facemmo coraggio. Portammo la mucca su un piccolo spazio erboso: un fucile 91, in due la tenevano per le corna, appoggiai la canna del fucile al centro della testa e sparai.
Fu tanto se non ammazzai uno dei due. Non cadde, fece un salto, scalciò e fece un qualcosa che assomigliava ad una carica e noi scappammo su per la scarpata.
Seppi in seguito che bisognava sparare un paio di centimetri sotto le corna, non al centro della testa che erano più o meno le nari. Sparai un paio di colpi mirando la testa e fortuna finì presto.
Mi veniva da piangere.
Dissanguarla, tagliarla, segarla era un altro problema.
Passò un contadino -minatore e ci aiutò.
Compenso: un pezzetto di vacca. C’era da prendermi a calci in culo, ma a 19 anni o poco più, vissuto in città, anche se un buon meccanico aggiustatore, non si poteva pretendere molto di più.
Nel mentre cominciavano ad arrivare “le reclute”, spaesate.
C’era chi pensava di trovare le caserme, reparti di addestramento 6 7 “…in due la tenevamo per le corna, appoggiai la canna del fucile al centro della testa e sparai.” ed alcuni anche divise e scarpe.
La maggior parte erano venuti per la chiamata alle armi dei fascisti, con tutte le difficoltà per i loro cervelli di inquadrare nel modo giusto la situazione. Però avevano fatto una scelta antifascista e sapevano che era una scelta pericolosa.
Alcuni se ne andarono, la maggior parte si fermarono. Altri ancora si dispersero con il rastrellamento del marzo. Si ritrovarono in altre formazioni. Nel complesso quella chiamata alle armi dei ‘nazi’ fu un loro clamoroso insuccesso.
Malgrado i rastrellamenti le formazioni si ritrovarono più forti e numerose. Malgrado tutto la base delle nostre squadre fu in seguito di questi ragazzi maturati in un tempo brevissimo.
Il primo guaio per le “reclute” in arrivo eravamo noi.
Arrivavano quasi sempre di notte.
Ci dovevamo svegliare, con giramento di scatole incorporato, dare qualcosa da mangiare e quindi metterli a nanna nel locale magazzino ove tra l’altro c’erano le cassette di esplosivo.
“Non fumare, non prenderle a calci non sedersi sopra che se no saltano e ci raccolgono tutti col cucchiaino”.
Normalmente stavano fuori al freddo ad aspettare l’alba.
Al mattino mangiare? Non ne facevamo nemmeno per noi tre. Incapacità unita a pigrizia. Non vi dico!
Insomma in due tre ore imparavano tutto sulla bella vita del partigiano. Autodisciplina, senza regole e scarso buon senso, che se ci fosse stato, si sarebbe fatto di tutto meno che il partigiano.
Il giorno dopo, i nuovi arrivi erano dirottati verso le varie squadre che si stavano formando. Normalmente erano formate da 10-12 uomini quasi tutti armati, meno un paio per squadra.
Si sentivano discorsi di questo tipo: “Imparate a conoscere le armi, anche chi non ce l’ha ancora.
Conoscendone l’uso, se attaccati, la prendete al primo caduto.”
A giudicarle oggi erano affermazioni a dir poco allucinanti, oltre che cretine. Però anche allora non è che fossero considerate un gran che.
La maggior parte dei disarmati era dirottata alla Galiverga.
Era una situazione esplosiva, lo capivamo, ma santa incoscienza, che si poteva fare? Si tirava avanti.
D’altra parte il partigiano aveva la necessità di imparare subito, e alla svelta capire, pena guai grossi.
Ricordo personale. Quando arrivai in Prabina, verso metà dicembre ’43 potei avere un moschetto ‘91’ e a sera ci mettemmo in postazione pensando di essere attaccati.
Cercai di caricare il fucile, che mi era stato consegnato poco prima, ma volevo fare entrare il caricatore al contrario, cioè le pallottole all’indietro.
Con il 21 marzo, avevo usato oltre al ‘91’, lo sten, il mitragliatore Breda e la mitragliatrice, quest’ultima alla Galiverga, il giorno dell’attacco che ci portarono i ‘nazi’ il 22 marzo. Abbastanza velocemente, no?
Alla Mugniva il lavoro di routine era semplicissimo a dirsi, a farsi un po’ meno, come descritto per la prima sera con relativa vacca da macellare.
Tre ragazzini dovevano organizzare una specie di distretto, un magazzino, organizzare una distribuzione viveri e prepararla.
Cosa sarebbe arrivato al magazzino nessuno lo sapeva.
Quante squadre c’erano, e quanti uomini in totale, si sapeva in modo aleatorio. Esperienza in merito zero.
In principio era una baraonda, in seguito pure. Ma la cosa funzionò. Incredibile ma vero. Discussioni a non finire con le squadre che venivano per il prelievo.
“Quanti siete, dove siete?”, per avere una mappa e “la forza” complessiva per cercare di sapere cosa dare anche per la disponibilità che si aveva. Da dove arrivavano i viveri? Non era compito di noi tre.
Eravamo preoccupati quando arrivavano. Scaricarli, metterli a posto, una specie di inventario per poter distribuire con criterio quanto si disponeva, alla presenza di decine di squadre che più o meno a turno giungevano con zaini e sacchi a ritirare ‘le razioni’.
Non c’erano grandi pretese, nemmeno si desiderava di avere un trattamento nelle proprie basi tipo osteria, quindi non sorgevano problemi nella distribuzione. Si cercava di non creare sperequazioni.
Nessun litigio e nemmeno lamentele, se non di poca entità.
Si disponeva di carne, con le mucche sopra descritte, che a noi tre creava problemi, ma alla fine di carne non è che ce ne fosse in abbondanza.
Pane che arrivava dai forni in valle, non molto.
Formaggio tipo parmigiano, provenienza R.E. (regio esercito) con l’otto settembre e nascosto presso civili e sempre salvato dimostrazione ancora una volta come “la gente” aiutasse in mille modi la nostra lotta.
Inoltre un po’ di burro, qualche sanguinaccio, salami, scatolame del R. E.
Ricordo scatolette da un chilogrammo d’acqua, forse sporca, che ci fece sorgere dubbi sull’onestà delle forniture dell’esercito. Qualcuno diceva che era brodo: meritava spedire brodo in giro per il mondo?
Misteri per noi poveri mortali non a conoscenza degli imperscrutabili disegni di chi “sta su”.
Non c’era da sprecare, anzi.
Una sera a cena: “… e il pane?” “L’abbiamo dato via tutto”.
“Ma porco cane, un po’ per noi si poteva tenere, no?”
Qualcuno di passaggio pensò di fermarsi a mangiare da noi, sperando, secondo moda nelle intendenze e magazzini militari, di trovare qualcosa di più appagante del solito.
Corse presto la voce che come ristorante eravamo pessimi e nessuno volle più fermarsi nemmeno se invitato.
La situazione migliorò con l’arrivo del papà di Valter Venturelli e un compagno di Settimo.
Fuggiti per aver organizzato gli scioperi del 1° marzo, l’aria di Settimo non era più salubre per loro, anzi era letale: i collaborazionisti sapevano chi erano i dirigenti e la segnalazione ai ‘nazi’ era garantita.
Non che avessero più esperienza di noi pivelli, ma il buon senso di quarantenni aiutava non poco.
Ricordiamo anche una storiella che sintetizza la mentalità e sensibilità “patriottica” dei nostri industriali, i capitani di industria.
Quello che contava, e conta, erano gli affari.
Mettersi dalla parte vincente per i propri interessi.
E alle volte commettono errori, ma poi si salvano sempre.
Parliamo della “LOCATELLI Spa”, sì la ditta famosa ancora oggi e reclamizzata. A capo vi era un Locatelli, un signore alto e magro.
Aveva tentato di valorizzare e valorizzarsi attraverso il “Cuneo” calcio.
Non ci riuscì, era il 1942. Sbagliò i calcoli e date.
La sede principale, o una delle principali era a Moretta.
Il Commissario Pietro Comollo, il Tenente ‘Mario’, ex Ufficiale dell’antiaerea, e un comandante di distaccamento si presentarono alla suddetta Ditta per chiedere la possibilità di avere qualcosa in viveri per le formazioni. Allora si era in pochi, le necessità erano poche.
Furono ricevuti da un capo ufficio, che negò ogni possibilità, sfottendo anche un pochino.
Le guerre si fanno per guadagnare soldi, o no?
Lor signori non erano ancora sicuri come sarebbero andate le cose; i nostri ebbero anche l’impressione di essersi cacciati in una trappola. Non era difficile telefonicamente avvertire il comando della presenza di ribelli.
Insomma gli industriali non avevano ancora deciso come comportarsi di fronte ai “ribelli”, comunisti o no, sempre volevano una maggior giustizia, maggior democrazia, quindi, non nascondiamoci dietro un dito, eravamo nemici.
Il 1° marzo 1944 fu sciopero totale, il più imponente dell’occupazione tedesca.
Nelle città e nelle campagne, tutto si fermò: tram, treni, fabbriche naturalmente. Fu un tuono per gli occupanti e i loro amici. Il Piemonte si bloccò completamente.
Le formazioni partigiane scesero a valle, dilagarono nelle pianure, nei paesi e nelle città minori. Per migliaia di operai, giovani, donne, fu la prima volta in cui videro fisicamente i Partigiani.
Si arrivò alle porte di Pinerolo, Bricherasio, Moretta, Torre Pellice, Cumiana e altre ancora.
Un’azione di forza di un impatto enorme. Le guarnigioni ‘nazi’ rimasero asserragliate nelle caserme e non si mossero.
Fu recepito che la Resistenza era forte, radicata e…diciamo la parola che sa di retorica, ‘invincibile’, ma non detta da noi che combattevamo duramente con un contributo di sangue altissimo, e con la popolazione civile che partecipava anch’essa con un contributo di sacrifici e di sangue, e senza la popolazione civile al fianco non si combatte nessuna guerra Partigiana.
Furono tenuti comizi: ‘Petralia’ a Cappella Moreri ai pendolari del treno bloccato, il Commissario ‘Pietro’ a Barge, Il Tenente ‘Mario’ a Moretta; in quasi tutti i paesi i comizi furono un successo.
A Moretta si fermò il treno Saluzzo-Torino, pieno di operai, impiegati, sfollati: il mattino in città, in fabbrica, ritorno alla sera.
Non era una vita molto bella. Il potere d’acquisto dei salari era diminuito della metà, bombardamenti, pericoli e disagi. Anche qui l’impatto fu grande, e forse si resero conto della forza della Resistenza.
Non poche squadre, ma movimento di massa.
Ci furono arruolamenti seduta stante.
Giungemmo a Moretta con tre camion: erano ansimanti, uno funzionava a legna, sì a legna!
Se si rimaneva senza carburante, si tagliava un po’ di legna e si andava avanti.
Su un fianco, vicino al predellino per salire c’era un grande cilindro, nella parte inferiore il fornello, si bruciava la legna che formava il gas e come il metano faceva funzionare il motore.
Si poteva attraversare anche tutta l’Europa.
Unico guaio non è che funzionassero tanto bene, ogni tanto un gasometro tentava di scoppiare. Spegni tutto e pulisci, riaccendi, guardi bene tubi e tubicini… ci voleva almeno un paio d’ore.
Insomma, se avevate un appuntamento d’affari o con una bella ragazza, non era garantito l’arrivo in tempo.
Infatti vedremo più avanti la fregatura.
Furono aperti i cancelli della Locatelli e gli automezzi entrarono nel cortile. Spunta il capo ufficio di buona memoria ed il tenente ‘Mario’: “Buon giorno, si ricorda di me?”.
“Sì, certo! Ma in certi momenti non si possono fare certe cose. Comunque adesso correggiamo”.
Chiamò un paio di suoi dipendenti e: “Ecco, ragazzi, andate in magazzino a prendere due tre salami e una cassetta di carne”.
E il Tenente ‘Mario’: “Lei ha il dono di natura di non capire nulla.
Vede quei tre camion? Ecco: li vogliamo pieni, e tutti e tre!”
Gli automezzi furono riempiti. E zeppi furono.
Il bello e il guaio cominciarono lì!
Tutti e tre i camion partirono, ma fecero poca strada.
Quello funzionante a legna fu il primo, seguito subito da un secondo.
Quindi il nostro Tenente: “Signori”, rivolgendosi a tutti gli astanti che erano scesi dai treni, e anche altri che forse avevano sentito il profumo di quanto stava avvenendo, “Servitevi! La Locatelli distribuisce gli utili di guerra, elargendo a tutti voi quanto ha spontaneamente caricato sugli automezzi”.
Scene bellissime. La vecchietta vestita di nero, secondo usanza, piccola e magra, quarantacinque chili bagnata, con una coscia di maiale appoggiata sulla pancia che cercava di correre verso casa; ragazzini con qualcosa in mano; operai, donne che cercavano di salvare qualcosa.
In tempi normali sarebbe stata una cosa non simpatica, ma ricordiamo i tempi.
Tesseramento: pane gr.150 giornaliero, zucchero mezzo Kg. mensile, pasta un Kg. mensile, olio o burro 200 gr., e così via per salame, prosciutto, formaggi… un lontano ricordo.
Forse non tanto nelle campagne, ma nelle città era fame.
Un medico già nel ’42 mi curava per ulcera e io avevo solo bisogno di mangiare; dopo avere avuto la possibilità di togliermi la fame per sette otto giorni… ero guarito.
Il più bello fu quando si fece l’inventario di quanto si portò alla base con il camion superstite.
Tutto “il buono”era sui due automezzi che si erano guastati a Moretta.
Ci trovammo con sanguinacci, cotenne, cassette di carne non di scarto, ma di quelle per insaccati o cosa altro, formaggio che si mangiava perché la fame fa diventare buono anche cosa non lo è. Giustamente del rastrellamento del 21 marzo ’44 e della battaglia di Pontevecchio, di quanti nostri compagni caddero e quanto costò al nemico se ne è parlato molto e fu una giornata che è rimasta nella memoria e quasi un simbolo dei venti mesi di guerra nella valle e nella zona.
Ma ci fu ancora un dopo interessante.
Ci riferiamo allo scontro avvenuto alla Galiverga il giorno dopo, il 22 marzo. Erano due, tre baite, una piccola conca che si raggiungeva con una mulattiera su una salita scoscesa.
Una parte della Brigata si era ritirata lì dopo gli scontri della prima giornata. Vi erano anche una parte dei disarmati che non si era potuto ancora inquadrare.
Fino ad allora, almeno nelle nostre zone, i rastrellamenti erano durati una giornata, anche perché le squadre erano poche e non raggruppate, quindi si subivano puntate e scontri anche duri nella giornata, come fu in Prabina il 30 dicembre ’43, e a sera si ritiravano nei paesi a fondo valle.
Verso il tardo pomeriggio si trattava di mettere a fuoco la situazione. Con due compagni, ‘Caramba’ (chiaro che era un carabiniere), e ‘Lillian’ (che era un nome di battaglia un po’ femminile perchè era quello della sua ragazza), dopo una breve riunione con ‘Petralia’, il Tenente ‘Mario’ e alcuni capi squadra, si decise di scendere a valle e cercare di capire le intenzioni dei ‘nazi’.
In basso, verso la Mugniva, prendemmo contatto con alcuni partigiani delle squadre che erano sui fianchi della valle e che non avevano ancora avuto contatto con il nemico; poco più avanti, verso l’alto, segnalati dai soliti incendi vedemmo una colonna scendere a valle.
Una donna che si trovava sul posto per caso accettò di andare a vedere ove andavano.
Ritornò spaventata. “Vanno giù, sono in tanti”.
Ci muovemmo noi tre e vedemmo la colonna che continuava a scendere.
Contammo un centinaio di uomini e poi smettemmo.
Quando l’ultimo milite fu nella strada, decidemmo di seguirli per capire come la situazione si prospettava per la sera e il giorno dopo.
Arrivammo alle loro spalle e vedevamo le baite che bruciavano al loro passaggio.
A dire la verità incendiavano quelle disabitate, ce n’erano abbastanza per riscaldare l’ambiente, forse ritenevano che servissero a noi.
Così arrivammo al bivio ove si dirama la valle dopo il Pontevecchio, verso Rorà e verso la Mugniva.
Attraversammo il torrente e potemmo constatare che avevano preso la strada verso Rorà, unendosi a una colonna con alcuni automezzi e autoblinde.
L’indomani sarebbe stata ancora una giornata calda.
Eravamo vicini ad una baita che bruciava e, come detto, ne avevamo lasciate altre alle spalle.
Avevamo visto abbastanza per comprendere la situazione nella totalità: il rastrellamento sarebbe continuato e l’attacco sarebbe probabilmente avvenuto dai due fianchi.
Torniamo quindi indietro risalendo la strada verso la Galiverga.
Dopo un chilometro o poco più, decisi di scrivere un biglietto per ‘Petralia’.
Il grave era che con la nostra “ben nota astuzia e intelligenza tattica” non ci eravamo accorti che un’altra colonna era scesa dai costoni laterali e anch’essa scendeva a valle.
Per cui la situazione si presentava comica, o tragica, secondo i punti di vista.
La prima colonna ‘nazi’ scendeva a valle, poi noi tre che la seguivamo e l’altra colonna che scendeva dietro di noi.
Il fatto è che noi, tornando indietro, dovevamo sbattere dentro di loro, e non avevamo avuto neppure sentore della loro presenza.
Il guaio è che erano cento o più e noi in tre; il buono è che ormai era buio…
Poi ci avevano visti?
Sì… e si vedrà il perché. Ma, come si dice, quando non è la tua ora, c’è sempre un granellino di sabbia che inceppa e devia il corso degli eventi, piccini o grandi che siano. Il nostro granellino era il biglietto che volevo inviare al comando di ‘Petralia’.
Era ormai buio e ci fermammo in una cascina per scrivere questo ‘benedetto’ biglietto (…benedetto davvero).
Un’aia, la casa posta in verticale dalla strada e distante una dozzina di metri da essa e un lato quasi sul torrente, poi il rustico, parallelo alla strada, formava una ‘L’ staccata un metro dall’edificio principale, spazio che permetteva di scendere al torrente per lavare e raccogliere acqua. Ci portiamo nel cortile io e ‘Caramba’; bussiamo chiedendo di poter entrare a scrivere.
Siamo ancora praticamente sulla porta che sentiamo ‘Lillian’, rimasto alcuni metri indietro gridarci: “Ehi! Sulla strada c’è qualcuno che parla!!”
Uno scatto, contro il muro fuori dalla luce; ‘Lillian’ qualche metro avanti e parzialmente riparato dal legno accatastato.
Comincia un dialogo che sa di surreale.
Loro: “Chi siete?”
Io: “Ma voi chi siete?”
Loro: “L’abbiamo chiesto prima noi.”
Io: “Stiamo calmi, però. Abbiamo avuto già molti morti oggi. Non spariamoci tra di noi!”
Loro: “Sì, ma qualificatevi”
E così avanti per alcuni minuti, quanti non so: in certi momenti non si percepisce la nozione del tempo.
Poteva anche essere una nostra squadra.
Per sicurezza dico: “Sono Dante, mi conoscete no?”
Io non potevo conoscere tutti, ma tutti o quasi venivano a Mugniva per rifornirsi, quindi … Nessuna risposta.Notiamo sulla strada un folto numero di uomini; non ci sono più dubbi: siamo dentro fino al collo!
Risparmio a cosa eravamo dentro, ma quella era ancora pulita al confronto.
Loro: “Non muovetevi! Venite avanti!” E… col cavolo avanti.
Quindi ancora qualche frase tipo le precedenti: “Stiamo calmi. Oggi è già stata nera”.
E’ così via, frasi dette con nervosismo e apprensione, paura no: in quei momenti non c’era tempo per quella cosa lì.
Poi loro: “State fermi che veniamo avanti”, e alcuni si avvicinano. Avevano le mimetiche. Impossibile sbagliare.
A questo punto se si è svelti nell’intuire e nell’agire, c’è la possibilità di evitare il peggio, se no… ti saluto!
‘Lillian’ aveva capito tutto: alza lo Sten e spara. Un urlo e uno cade colpito.
Scatta indietro e mi sbatte addosso, mentre stavo per sparare anch’io.
Una raffica di mitra ci passa sulla testa: eravamo in quel momento tutti e due a terra. ‘Caramba’ era scattato verso il torrente e io urlo di attraversarlo: su per la scarpata conoscevo bene la zona e ce l’avremmo fatta. Siamo quasi nell’acqua, quando dalla sponda opposta ci sparano in faccia.
Erano già appostati. In quel caso le fiamme del fucile accecano e sembrano lunghe dieci metri.
Un altro urlo mio: “Su per il torrente”.
Avevamo alcuni metri di riparo del rustico. Un paio di secondi per riprenderci e capire.
Usciti allo scoperto, ci rovesciarono addosso una quantità di colpi impressionante.
Le loro tracce portarono la luce, sembrava giorno. Forse c’erano anche traccianti.
Infatti vedevamo benissimo i massi e le pietre sul fondo del torrente, potemmo saltare su di essi senza bagnarci.
Quanto durò quell’inferno non so dirlo, per almeno 50-60 metri di sicuro. Nessuno dei tre fu colpito.
Quando capimmo che eravamo fuori pericolo, uno di noi mormorò: “Non siamo morti oggi, non moriremo più”. Buon profeta: a Torino giungemmo tutti e tre. Pericoli ne passammo ancora e tanti.
Ci ritrovammo alla Galiverga senza più la voglia di scrivere e con il Comando si esaminarono la situazione e le previsioni per il giorno dopo. E fu come si poteva prevedere, come noi avevamo previsto: l’attacco alla Galiverga sarebbe avvenuto da diverse direzioni.
Alla Galiverga si disponeva di due mitragliatrici BREDA 38. Ancora le stesse della Prabina.
Una, piazzata su uno sperone a sinistra guardando la valle, permetteva di controllare la vallata; la seconda, sulla destra, controllava la salita dalla mulattiera.
Vi era una piccola grangia, deposito dei materiali dei minatori, staccata dalle altre forse per evitare che un’accidentale esplosione facesse saltare tutto per aria. Alla prima si piazzarono il Tenente ‘Mario’ e Petralia; alla seconda andai io.
C’era già una squadra con un mitragliere, ma il coraggio se non c’è, come diceva don Abbondio, non c’è.
Avevano costruito un muretto davanti alla grangia con una bella feritoia per la mitragliatrice, qualcuno sapeva come andava fatto. Piazzammo la mitraglia e attendemmo l’attacco.
Nella notte dormimmo ben poco: tensione enorme e silenzio. Si sentivano i sassi rotolare verso il basso come se qualcuno camminando li facesse cadere.
Sistema pratico per capire come montagne divennero colline e poi pianure, come spiegavano gli scolastici libri di scuola, ma a noi dava l’impressione che qualcuno si avvicinasse.
L’attacco iniziò nella tarda mattinata.
Da che parte arrivassero i fascisti si capiva dalle grange che bruciavano secondo loro abitudine, anche se per loro era meglio non farsi notare.
Cominciò a sparare il Tenente ‘Mario’, quando si avvicinò la prima colonna.
Ero preoccupato perché non vedevo nessuno nella mia direzione.
La seconda colonna si era portata sulla nostra destra, ma in alto, quasi alla nostra altezza e pensai di doverci difendere non più di fronte ma da quel fianco.
Altri incendi dal basso e questi potevano arrivare a noi.
Altra colonna, sempre segnalata dagli incendi, spuntò dalla sinistra, ma anch’essa in alto, a preventivare un attacco dai fianchi.
Non potevamo scambiarci messaggi. Cominciai a sparare anch’io, a segnalare che il fianco destro era protetto, e che pensasse a sostenere gli attacchi che giungevano dalla sua parte.
Rispondevano al nostro fuoco con una certa intensità.
A loro le munizioni non mancavano; noi ne eravamo scarsi. Era difficile vederli e capire dove erano appostati, tra l’altro non avevo un cannocchiale.
Se ci fossero arrivati addosso, pensai che eravamo una dozzina di uomini, ma armati solo due o tre, e non li conoscevo, non sapevo come avrebbero reagito.
“Accidenti!”, pensai, “Perché non mi sono portato dietro ‘Caramba’ e ‘Lillian’.
Capimmo una cosa, essendo la casetta in mezzo la neve, aveva nevicato molto a febbraio, o si resisteva fino a notte o grossi erano i guai.
Cominciai a preoccuparmi, dopo le prime due tre raffiche la mitragliatrice si inceppò.
Un indispensabile sacramento e cerchiamo di capire.
Notai la canna messa storta. Un colpo con un sasso ma dopo pochi colpi di nuovo ferma.
Si era perso il nasello fermacanna, un pezzettino che si inserisce nell’apposita scanalatura.
Risolto il problema: mentre sparavo, ‘Giang’ con un sasso teneva la canna a posto.
A questo punto le colonne che si avvicinavano erano sei.
Ce n’era per tutti i gusti. Ogni tanto vedevamo movimenti; più che vederli, si intuivano e si sparava nella direzione.
Non erano molto lontani.
Rispondevano con lunghe raffiche e un paio di volte centravano la feritoia da cui sporgeva la nostra mitraglia.
Come non abbiano centrato anche me…è un mistero gaudioso, più incredibile di quelli che ci insegnano a scuola di religione.
Al ‘Giang’, il mio occasionale servente, andò quasi meglio.
Disteso al mio fianco, fece un salto che sembrava un tarantolato e urlava di conseguenza.
Una pallottola era passata tra una pietra e l’altra, gli aveva bucato giacca, camicia, maglia e…massaggiato la pelle che non sanguinava, ma presentava una striscia marrone fumante.
La ‘Breda 38’ era ergonomicamente ben fatta, si stava seduti comodi, ma le ore erano lunghe a passare, un po’ più veloci quando ti sparavano o sparavo io.
I pensieri scorrevano anche loro. Strano, pensavo a tutto tranne che sarei potuto morire.
In quelle ore con davanti un muretto di pietre, con feritoie incorporate e alle spalle la casetta per gli attrezzi dei minatori, seduto abbastanza comodo sul trepiede dell’arma, i pensieri arrivavano a valanghe.
Non Dio o i Santi, inutile chiedere aiuto a loro, avessero voluto non ci avrebbero inguaiati fino a quel punto.
Non invocai la mamma, pensai a lei, chissà dove era e cosa faceva in quel momento.
Mi sovveniva il mare della mia infanzia e di pochi mesi prima, giocando con le onde alte, e le ultime “ferie”.
La montagna la trovavo faticosa.
Il mio lavoro, calibrista, la famosa “coda di rondine” in otto ore, fatta anche in una gara dei “Littoriali del lavoro” e poi scartato agli orali, non avevo saputo dire cosa significavano i fasciolini rossi sul bavero di un ‘capoccia nero’.
Avevo imparato un mestiere che non mi avrebbe dato da vivere, che serviva ai padroni, non a me.
Teoria nata sotto la mitraglia.
I pensieri si interrompevano con l’arrivo dei proiettili che, con alcune ore di esperienza, capivo se arrivavano alti, a destra o a sinistra o se era meglio abbassare la zucca per non farsela forare.
Verso sera la concentrazione era tale da non pensare ad altro che al modo di uscire dai guai, altri pensieri non trovavano più posto.
La mitragliatrice del Tenente ‘Mario’ sparava più di noi; era piazzata su uno sperone avanzato al centro della conca.
Poteva vedere o capire i loro movimenti per un ampio raggio.
Noi sulla destra si controllava la strada che veniva dal basso e i sentieri a mezza costa, che portavano anche più in alto della nostra postazione, e potenziale pericolo di essere attaccati dall’alto.
Vantaggio nostro le pietre, residuato delle cave, non per tirarle addosso ai fascisti, ma perché creavano uno spazio scoperto che ci permetteva di controllare la situazione.
Non era facile nemmeno per loro, ma eravamo preoccupati per la scarsezza delle munizioni, che in pratica esaurimmo quasi completamente.
Verso il tardo pomeriggio contammo le colonne che venivano verso di noi: erano sei.
Facile capirlo: dove passavano, bruciavano le grange.
Sostenere che non mi preoccupassi è difficile.
Il comando con ‘Petralia’ temeva l’attacco dalla sinistra, ormai non erano molto lontani, protetti dalla vegetazione e dal bosco.
Necessario sganciarsi: si doveva uscire allo scoperto e sulla neve.
Fortuna che era ormai l’imbrunire e bastò la retroguardia a tenerli a bada.
Fu l’inizio della ritirata verso la Rumella.
Salita ripida, sconosciuta, neve alta e fresca caduta ancora a febbraio, poco vestiti e scarpe che è meglio non pensarci.
Una mia calzatura, chissà quanti soldati ci avevano camminato dentro, si aprì e camminai con una soletta di neve e un principio di congelamento che mi diede noia per anni.
Fu il capitolo più doloroso e tragico della 105ª Brigata.
Sfiniti, semicongelati, quasi nulla da mangiare.
Bisogna ricordare il dolore, i sacrifici di quanti caddero.
Però la ritirata permise di salvare il grosso della formazione, che fu temprata dagli avvenimenti e diede la consapevolezza che si poteva e si doveva continuare la lotta.
Sia pur con difficoltà, si riorganizzarono le formazioni, si estese la lotta in pianura.
Vi furono ancora sacrifici, ma si giunse alla liberazione.
Altre storie si dovrebbero scrivere a ricordo di quanto seppe fare il popolo italiano senza gli fosse imposto, ma per coscienza e, senza retorica, per patriottismo.
[fine]