Nella primavera del 1944 a Brindisi, Giulio Pardi, Franco Tasso e Mario Bortolotti furono selezionati per una missione alleata nel nord Italia, oltre la linea Gustav.

Beninteso, come si conviene ad ogni missione segreta queste erano tre false identità create per l’occasione; nella realtà le persone interessate erano Guido De Benedetti, un ebreo di Torino collaboratore delle britanniche Special Forces Number One fin dai tempi della presa di Addis Abeba, Federico Tessiore, torinese, tenente di artiglieria che dopo l’8 Settembre aveva raggiunto a Salerno il X Raggruppamento Motocorazzato italiano comandato dalle SF1 per desiderio di appartenere al Regio Esercito, e Lidio Baracchini, udinese, ferroviere radiotelegrafista che per evitare la leva aveva offerto la sua collaborazione agli inglesi.

La Missione Winchester, questo il suo nome in codice, aveva lo scopo militare di compiere sabotaggi alle vie di comunicazione della Val Susa, ambito territoriale a cui era limitata, e lo scopo politico di fare in modo, mediante opportuni contatti col Comitato di Liberazione di Torino, che la valle “rimanesse il più possibile calma”.

Ai primi di marzo la missione ebbe inizio: dopo il fallimento di alcuni tentativi di lancio in paracadute, si decise che i tre agenti arrivassero a destinazione via mare e via terra.

Il racconto dei primi giorni della missione che ne ha lasciato Federico Tessiore nel suo libro La guerra di Franco Tasso. Memorie di un agente segreto, l’Araba Fenice Editore, Boves 2018 offre uno spaccato quanto mai interessante della organizzazione clandestina partigiana a Genova e Torino in quella primavera del ‘44, ed illustra qualche dettaglio del percorso di infiltrazione che seguì anche uno dei martiri della nostra Resistenza, Alberto Calleri di Sala, ucciso dai nazifascisti al ponte Blancio a Torre Pellice.

Alberto, nome in codice Aldo Fasullo, fece parte di una parallela missione che interessava la Val Pellice. Non sappiamo se anche la sua missione avesse lo scopo di fare stare calmi i partigiani, è probabile di no, dato il diverso valore strategico delle due valli.

A quell’epoca le forze alleate esaminavano la possibilità di arrivare nel nord Italia dalla Francia, e non volevano una eccessiva militarizzazione della principale via di comunicazione, la Val Susa; esigenza che si presentava in termini molto meno pressanti in Val Pellice.

Sia come sia, colpisce, nelle vicende di Tasso e di Fasullo, la coincidenza delle prime coperture a Torino, quei contatti con le Molinette che permisero a entrambi di fingersi dipendenti dell’ospedale e di far circolare impunemente una radio ricetrasmittente per la città spacciandola per attrezzatura sanitaria. Segno di una organizzazione clandestina che ha già fatto le sue prove e funziona con un buon automatismo: e sono passati solo sei mesi dall’8 Settembre, e si è partiti da zero e si è dovuto imparare tutto.

Per completezza di informazione, e per la nostra soddisfazione, diremo che la missione Winchester non raggiunse il suo scopo politico. La realtà sul campo, in val Susa, era ben diversa da quanto ritenevano gli inglesi: le formazioni partigiane vi erano attive e organizzate e poco disposte ed essere eterocomandate, e soprattutto erano poco inclini all’attendismo già all’epoca reclamato da Alexander. Ciliegina sulla torta, per tutta la durata della missione la radio, pur portata di qua e di là, su e giù per la val Susa, si rifiutò di ricevere alcunché di intelligibile e la missione non riuscì mai a prendere contatto con il comando inglese.

Messa da parte ogni altra ambizione, Franco Tasso si diede quindi da fare in operazioni varie a sostegno della “Stellina” e della “Carlo Carli”. Quando arrivò in valle era molto critico nei confronti “del bellicismo di Ada e soprattutto di Paolo Gobetti”; nel dopoguerra, con suo vivo disappunto, scoprì che Ada Gobetti nel suo “Diario Partigiano” aveva finito con l’indicarlo come “Franco il dinamitardo”.

Di seguito, l’estratto del libro che racconta le prime fasi della missione Winchester, il passaggio a Torino e quei contatti con le Molinette…

Qui il pdf.

 

L’imbarco della Winchester sul cargo, assieme a poche decine di persone, è un altro buco nero dell’attuale memoria di Tasso. Il primo sia pure confuso ricordo su quella nave, dopo tale evento, è quello di se stesso sul ponte, accanto a due ufficiali in divisa della marina inglese.

Accanto a lui, Pardi, pur affacciato a guardare la calma baia all’uscita dal porto partenopeo, appena uscito risalendo la breve scaletta dalla cuccetta, che gli era stata assegnata proprio accanto alla sua, nella cabina multipla che si trovava alle loro spalle. «Giulio, dato che questi due dicono di non capire ciò che ho loro chiesto in un pessimo inglese, chiedi tu perché, mentre quell’altre imbarcazioni in questa evidente bonaccia filan diritte come sull’olio, la nostra ha un non indifferente rollio». Dopo una prolungata conversazione, tutta anglofona, l’altro gli riferì: «Dicono che questa è una carretta del mare, vecchia, che non ha certamente alettoni antirollio, ma pur a loro pare che questo sia eccessivo rispetto a quanto compatibile con un golfo così calmo». Quando, dopo un po’, Tasso gli confidò che per la prima volta in vita sua, sentiva un malessere, che sospettava esser MAL DI MARE, Pardi gli rispose per consolarlo che gli pareva che Mario, nel frattempo comparso al suo fianco, sbucato dalla propria cuccetta, sovrapposta a quella di Franco, stesse peggio di lui. Il gestore di Giuseppe, sporgendosi fuori coperta, vomitava rumorosamente nell’acqua vicina.

Quando doppiarono Ischia, al rullio si aggiunse un alterno beccheggio.

Tasso era nel frattempo tornato a sdraiarsi in cuccetta trovandone un temporaneo sollievo. Quando quell’altra ben più squassante altalena s’aggiunse alla precedente, anche egli dovette correre fuori con forti conati di vomito, quasi sempre sterili. Rinunciò al pranzo, ma verso sera ebbe la meschina soddisfazione di vedere Pardi e anche i due ufficiali di marina, in preda ad analogo, evidente malessere.

Per molto più di un’altra giornata durò la sofferenza che, caso strano, mentre costeggiavano interessanti e dirupate coste sarde, si attenuò, nonostante un contemporaneo ingrossamento del mare per cui visibili onde venivano a infrangersi sul fianco di tribordo del vecchio cargo.

Comunque eran passate due notti di luna calante, con una domenica fra quelle e finalmente erano sbarcati a Bastia, il pomeriggio del lunedì.

Li attendeva un alto e simpatico maggiore inglese SF, che Pardi aveva altrove conosciuto, il quale sapeva soltanto malamente parlar italiano.

Questi fu molto premuroso con quelli della Winchester, come con un tale che era giunto da Genova e alcuni altri già presenti da alcuni giorni nella CASA SF di quella base di cui egli era il capo responsabile. Furon abbondantemente rifocillati al ricco five-o’-clock essendo loro passato il mal di mare, sostituito da un ritornato robusto appetito.

Prima dell’imbrunire, s’imbarcarono tutti, maggiore compreso, su un MAS con bandiera ed equipaggio della marina italiana. Veloce il motoscafo sfrecciava quasi silente sul mare, senza che nessuno provasse alcun disturbo e in una euforia di entusiastico patriottismo, tutti gli Italiani trasportati a bordo si complimentavano cogli ufficiali e coi marinai della elegante e ardita imbarcazione. Godendosi la quasi primaverile sera, che s’oscurava, tra spruzzi odoranti salsedine, eran per lo più disposti all’esterno lungo la bassa ringhiera metallica alternando chiacchiere a lieti silenzi. V’era atmosfera di ottimistica attesa e di sicura speranza per quella loro MISSIONE DA SBARCO, come era stata definita con acuta ironia dal sovente perfido ufficiale RAF.

Quella simpatica corsa si arrestò, dopo poche ore, al largo nel golfo di Genova, per il buio ancora insufficiente e la sosta durò a lungo.

Quando la notte di luna quasi nuova elargì una fitta oscurità, si mossero con i motori al minimo, verso Voltri. Nel buio, si intravedeva la costa, buia per l’oscuramento e il profilo nero dei monti appenninici che si stagliavano contro un cielo non limpido e con poche stelle. Quasi in contrasto con quella rarefatta mancanza di luminosità, fasci di Iuce rotanti venivan dal grande faro della Lanterna che si rifletteva sul mare.

Il mas si fermò nuovamente e a bordo iniziò un’attività febbrile che coinvolse anche i tre della Winchester. Furono calate in mare due piccole imbarcazioni, un canotto pneumatico e una larga barca, con una robusta intelaiatura di legno su cui era tesa e fissata una tela, resa impermeabile da uno speciale trattamento. Sul canotto, presero posto un vogatore sudafricano, il membro del Comitato di Liberazione di Genova, venuto giorni prima da lì a Bastia, non si sa con qual mezzo, al fine di guidarci nello sbarco e il britannico maggiore SF, capo della CASA di quella base corsa che si diceva volesse, più che altro per spirito di avventura, sportivamente partecipar di persona a ogni sbarco su quella ligure costa. Sulla più grande barca erano dodici persone: un biondo imponente vogatore canadese, che sapeva qualche parola sia di francese, sia di italiano, oltre agli undici membri delle quattro missioni di cui altre due, come la loro, composte da tre italiani e una da un inglese e un australiano, ambedue oriundi italiani. La luce della Lanterna pareva far scintillare l’onde increspate fin presso di loro, ma eran rassicurati dal fatto che il bordo delle lor imbarcazioni non cambiava luminosità anche quando, in apparenza, ne era sfiorato.

Quando tutti, compresi i bagagli, furon a bordo, il canotto si avviò verso la costa, seguito dalla loro barca, che procedeva più lentamente, in modo che la distanza fra i due navigli aumentava. Tasso, tuttavia, continuava a intraveder la sagoma del canotto che s’alzava e si abbassava su quelle pur modeste onde. Ora, però, si scorgevano vagamente anche dei piccoli moli che si protendevano verso il mare aperto. A Bastia avevano detto loro che su uno di questi moli del Cantiere navale tuttora in funzione nella Baia di Voltri, sarebbero stati accolti dal predisposto Comitato di Ricezione, composto da una Guardia giurata dello stabilimento e da un sottufficiale della Guardia di Finanza, membri della Resistenza.

Avevano anche precisato che, su entrambi i moli più vicini, sia a destra che a sinistra, analoga sorveglianza era integrata da un picchetto di militari tedeschi. Ad un tratto, il loro vogatore, in un multiliguistico e tuttavia comprensibile idioma, in preda a comprensibile grande angosciosa agitazione, disse ciò che in corretto italiano equivale a questa frase: «Dalla volta precedente ricordo questi moli: il canotto col mio Maggiore si sta dirigendo verso il molo sbagliato di destra e noi non possiamo farci niente». Tasso, come anche i suoi amici e compagni, si sentì raggelare, ma fu l’unico a rispondere dicendo, ad alta voce, una sola parola: “AFFRETTIAMOCI!” Forse non sarebbe stata una soluzione molto saggia andar in fretta a infilarsi in uno stabilimento di lì a poco in allarme e da cui non si poteva uscire che al cessare del coprifuoco, ma il pericolo scomparve perché l’italiano del canotto si accorse in tempo dell’errore in cui era incappato. Le due imbarcazioni giunsero pertanto quasi contemporaneamente alla meta voluta e iniziò qui un piuttosto laborioso sbarco.

Prima che si ritrovassero tutti i membri delle quattro missioni coi loro bagagli nella stanzetta coi due guardiani, Pardi e Tasso avevano salutato lo sportivo coraggioso maggiore che dopo essersi con loro inerpicato sul molo, aveva fumato una sigaretta, per ridiscendere ai suoi vogatori e ritornare al mas che l’attendeva al largo. Tasso non poté fare a meno di pensare a quanto questo agire fosse lontano da quello di altri SF e provò una grande simpatia per questo ufficiale di cui non ricorda ora né l’aspetto né il nome vero o di battaglia con cui poche ore prima si era presentato. Comungque, il resto della notte trascorse in animate conversazioni organizzative che articolarono subito i vari gruppi. I più determinati e autonomi eran i due stranieri che, usciti dallo stabilimento al cessar del coprifuoco, alle cinque sarebbero andati in una vicina base dov’eran già attesi.

Da questa base, organizzata dalle SF, avrebbero raggiunto la loro destinazione in automobile. Le altre due terne di Italiani, con il membro del Comitato di Liberazione di Genova, sarebbero uscite subito dopo per raggiungere la Stazione Principe e partire verso due diverse destinazioni, in Lombardia. Quelli della Winchester sarebbero usciti un po’ dopo per raggiungere, a circa mezzo chilometro, il capolinea della linea tramviaria per piazza Caricamento e qui riorganizzarsi raggiungendo verso sera l’abitazione del sottufficiale finanziere che si era offerto di ospitarli per qualche notte. Perciò avvenne che al mattino, verso le cinque e trenta, i tre furono da quello stesso futuro ospite accompagnati al cancello dello stabilimento, da dove iniziò la lor avventura terrestre. Ebbero un problema: la valigia del SIM di Brindisi, portata da Mario, con dentro, assieme alla biancheria di Franco, il pesantissimo Giuseppe, si sfondò vistosamente dopo meno di cento metri di strada. Per rimediare rapidamente, Franco diede a Mario, più timoroso e impacciato, il suo bagaglio. Prendendo la valigetta— apparecchio, si propose di portarla con disinvoltura. Giulio scambiando la valigia rotta con la propria, riuscì a rabberciarla e portarla come se non fosse sfondata. Mentre si avvicinavano al capolinea, altre due persone apparvero sulla strada e i tre decisero di comportarsi come se non si conoscessero. Saliti sulla vettura, Tasso notò la presenza d’un militare tedesco, su quel mezzo pochissimo affollato. Allora senza il minimo imbarazzo, si andò a sedere sul sedile subito dietro quello, che si trovava sul lato sinistro, a circa metà vettura mettendo il suo pesante compromettente bagaglio sotto il sedile di lui. Pardi si era seduto a destra, abbastanza vicino al manovratore e Bortolotti in fondo, sempre da quel lato, presso il bigliettaio da cui si erano tutti muniti del biglietto dal costo scordato, ma certo inferiore a una lira.

Mentre il tram s’avviava sferragliando, Tasso s’accorse che Pardi, senza volersi far notare, gli stava lanciando un segnale indicandogli le scarpe. Guardandole, le vide bianche di salsedine certamente raccolta sul mas, nella esaltante veloce traversata dalla Corsica. Tasso guardò anche le altre e si accorse che tutti e tre avevan quei piedi bianchi, che in qualche acuto osservatore, avrebbero potuto generare pericolosi sospetti. Poi si rinfrancò, perché il tedesco vicino a lui non aveva certamente l’aspetto di persona acuta. Dopo quasi un’ora, in quel mezzo sempre più affollato, raggiunsero la piazza a cui confluivano molti caratteristici “carruggi” genovesi di dubbia fama. Scesi dal tram avendo notato un lustrascarpe in un angolo della piazza, a turno vi si recarono uscendone con scarpe scintillanti, liberate dal sospettabile biancore salmastro. Poi Pardi, con molto spirito pratico, dopo ch’ebbero raggiunto il centro della città, nei pressi della piazza De Ferrari, si dedicò agli acquisti: tre impermeabili (colla primavera in arrivo, meglio dei cappotti) ognuno della giusta misura pel destinatario e due valigie di cui una particolarmente robusta, adatta a traportar il peso di Giuseppe senza danni. Nella maggior capacità così aumentata di contenitori del loro bagaglio trovarono posto, oltre al compromettente apparecchio, anche i dismessi cappotti spina-pesce, pericolosa divisa che avrebbe potuto rivelare la loro provenienza da Brindisi, con scopi di collegamento coi nemici degli occupanti. Con tutto quell’ingombrante carico, verso l’una, raggiunsero, tornando nei carruggi della parte ovest della città, un ristorante indicato dal sottufficiale finanziere dove il nome di quello funzionò da chiave magica per aprire molte porte: poter mangiare senza carta annonaria (un ottimo pranzo) e lasciare in sicura discreta custodia, fino a sera, tutti quei bagagli. Alla sera si recarono con tutta la roba nella casa ospitale di quel nuovo amico.

Lo trovarono da solo ad attenderli. ] ricordi vecchi di più d’un mezzo secolo della casa e dei discorsi d’allora, si annebbiano molto e diventano estremamente confusi. Ora è un mistero non solo l’ubicazione topografica e toponomastica della casa, ma anche la struttura, il suo ambiente e l’atmosfera di conforto o meno che vi respirarono. Vivace e intenso perdurante tuttora è invece il sentimento di gratitudine e di affettuosa ammirazione per chi seppe con modestia e grande coraggio dare all’iniziante missione un così fondamentale aiuto. Tasso non ha memoria né del nome né dell’aspetto e dell’abitazione ricorda solo un gran letto matrimoniale massiccio e imponente su cui semivestiti dormiron in tre.

La mattina seguente avrebbero dovuto recarsi alla sede del Comitato di Liberazione di Genova per prender i contatti con chi, in quello stesso giorno, era andato a Torino ed era tornato dopo aver organizzato l’incontro di uno di loro nel capoluogo piemontese col locale Comitato di Liberazione.

Fu stabilito fin dall’alba sul molo che a recarsi a quella lor destinazione comune, per primo sarebbe stato Tasso. Ora decisero che all’indirizzo del Comitato di Genova (anche per tale particolare la memoria pure non funziona a dovere, ma sa dire fosse abbastanza in centro) si sarebbero recati Pardi e lo stesso Tasso che però sarebbe rimasto fuori, per il sano principio, insegnatogli proprio dall’allora falso cugino a Selva, di evitare il più possibile presenze comuni, non solo per ridurre rischi e sospetti, ma anche per confondere volute o non volute delazioni.

Infatti, in successive occasioni di quella strana sua guerra, egli ebbe modo di imparare quanto fosse facile esporsi a inutili rischi col dar adito a chiacchiere a prima vista apparentemente del tutto innocenti. Comunque quella notte, forse non molto riposante, sia per l’affollamento del letto, sia per le emozioni delle recenti e delle future pensate avventure, trascorse alfine e la missione ebbe inizio.

CAPITOLO VII
Slalom fra i crolli d’organizzazioni

La mattina seguente, verso le nove, erano davanti a quella sede che dall’esterno appariva come un comune ufficio a piano rialzato con un ingresso diretto sulla via da cui si vedeva, attraverso un portoncino spalancato e una breve scaletta di pochi gradini, una normale porta a un battente a vetro smerigliato. Fin qui erano giunti quasi insieme, ma come non si conoscessero: Giulio avanti, Franco dietro parlandosi soltanto quando eran convinti che nessuno li udisse. Franco s’allontanò a guardare una vetrina di ferramenta e il cugino entrò. Ne uscì dopo più di una abbondante ora assieme a un tale barbuto e con il bavero rialzato al quale indicò Tasso e poi s’allontanò velocemente. Mentre egli pensava, all’avvicinarsi di quello sconosciuto, che quegli avrebbe fatto meglio a mostrarsi più disinvolto, fu da lui interpellato sottovoce pur non essendoci alcuno nei pressi: «Franco?» Rispose: «Son Franco: dimmi pure». L’’altro si sciolse un po’’ e riprese: «Tuo cugino t’aspetta, appena puoi, in piazza De Ferrari. Tu, domattina prendi da Principe il primo diretto per Torino che, se in orario, arriva a Porta Nuova alle 11. ÉEsci dalla stazione, lato destro e va nel vespasiano dal lato dell’edificio della stazione. Qui ti fermerai un poco. Dopo, voltati, senza uscire nel giardino. Ti s’avvicinerà un giovanotto con una sigaretta in mano e ti chiederà: “Ha un cerino?” Tu risponderai: “Ne ho due.” Buona fortuna!’» Abbassandosi più ancora il cappello sugli occhi, volse i tacchi e si allontanò a passo svelto.

Tasso si diresse alla piazza abbastanza affollata dove si incontrò col cugino e qui si parlarono come due conoscenti, dato che non eran più in zona compromettente. Pardi fu contento di quanto egli gli riferì, ma apparve molto preoccupato da ciò che aveva visto nella sede.

«Quelli sono persone degnissime: m’è molto piaciuto il Capo che si fa chiamare Otto, ma sono pazzi incoscienti e pericolosi: io sono entrato e ho girato per i locali senza che nessuno mi dicesse nulla: mi sono presentato come Pardi e sono stato quasi festeggiato. Da ogni parte vi sono cose compromettenti e perfin armi incustodite e carte geografiche con bandierine. Dobbiamo allontanarci di qui appena possibile».

Tasso malinconicamente pensò a come tutto questo contraddicesse a ciò che aveva appreso a Selva e quello strano corso gli apparve più utile e concreto di quanto fino a quel momento l’avesse valutato. Purtroppo il frutto di tanta non consapevole leggerezza si ebbe non molto tempo dopo quando Otto, con molti altri, fu arrestato, processato e avviato a una tragica fine.

La mattina dopo Tasso era a Torino e giunse a Porta Nuova con poco ritardo.

Si recò nel luogo convenuto, un po’ agitato ed era ancora girato nella posizione della funzione a cui l’orinatoio era deputato, quando si sentì toccare su una spalla. «Un momento!» disse e si riassettò. Voltatosi, vide davanti a sé un giovane sparuto con una stretta e corta giacca a vento. Disinvoltamente, quella strana apparizione gli chiese rigirando fra le dita una malconcia sigaretta: «Scusi, ha un cerino?» Tasso rispose prontamente come convenuto e uscì in fretta da quel luogo sgradevole. L’altro, presolo sottobraccio, gli fece attraversare l’atrio della stazione letteralmente trascinandolo in Via Nizza, quasi di corsa.

Dopo un breve tratto sotto i portici, si portaron in direzione sud, verso il Valentino. Passando vicino a un ristorante con vistosa insegna “ALA D’ITALIA”, il giovane gli disse: «Qui si può mangiare senza tessera annonaria e anche bene: bisogna però star attenti, perché il locale è frequentato da clandestini, ma anche da fascisti e spie tedesche in borghese». L’informazione fu molto utile a Franco che la sfruttò dopo poco meno di un’ora, come diremo.

In via Orto Botanico 8 (or quella via ha cambiato nome) entrarono in un oscuro androne di un vecchio edificio, passarono vicino alla guardiola della portinaia che scostando la tendina, li sbirciò mentre cominciavano a salire le scale di pietra scura, mancando l’ascensore, come in quasi tutte le vecchie case del centro della città d’allora. Tasso non più ricorda se fossero giunti al secondo oppure al terzo piano, quando il suo accompagnatore suonò in un modo convenzionale (due squilli, pausa e nuovamente due squilli) il campanello d’una delle porte che si trovavan sull’abbastanza lungo ballatoio ad arco di cerchio di quelle scale. La porta s’aprì ed essi entrarono in un lungo corridoio buio che portava a una grande sala, ma che alla discreta luce appariva quasi piccola per l’affollamento. Alcune sedute, altre in piedi, davanti alla propria sedia, altre semplicemente ritte per mancanza di sedili, vi si notavano ben più di venti persone certamente. Un simpatico signore di mezz’età parlava di formazioni militari, di attentati e sabotaggi e con serena e amichevole autorevolezza, colloquiava con i vari presenti che relazionavano sulle loro situazioni, imprese, fallimenti e paure.

Franco, pur se reso diffidente da quanto gli aveva detto Giulio avere visto a Genova e dal fatto che nessuno s’era preoccupato di chi egli fosse, continuando ognuno nei propri discorsi, come se l’arrivo suo e di Pardi non fosse avvenuto, giudicò più accettabile tale mancanza di spinta prudenza per il fatto che il suo accompagnatore si era fatto riconoscere, col suono particolare del campanello. Il benevolo giudizio di maggior serietà vacillò tuttavia, dopo una ventina di minuti, quando quel grande capo avendo finito cogli altri, che salutando se ne stavano andando, si era avvicinato a loro chiedendo al suo vicino indicandolo: «Questo chi è?» Quel personaggio era il Professor Braccini che, responsabile delle formazioni GL, aveva esteso la sua guida ad altre.

Era professore cattedratico all’Istituto di Zoologia dell’Università di Torino, entrato nella lotta clandestina con “Giustizia e Libertà”, soltanto dopo l’8 settembre e divenuto capo militare di quelle bande più che altre politicizzate, ma in stretta collaborazione col CMRP, il Comando Militare di tutte le Formazioni Partigiane del Piemonte di cui era a capo il Generale Perotti. Mesi prima, quel tal Generale, che girava fra certe formazioni in divisa e con squilli di attenti, aveva, con poca prudenza, convocato al Castello di Moncalieri, presso quel Collegio Nobiliare, gestito da religiosi, molti comandanti partigiani.

Mentre costor lo stavan aspettando, era giunta la polizia nazifascista: tutti eran stati arrestati. Il generale, col suo seguito, aveva avuto un provvidenziale incidente d’auto, mentre si recava colà e un frate era poi riuscito a fermarlo in tempo, quando finalmente stava per arrivare. Da allora, dopo la dissoluzione di molte bande (fra cui specialmente quelle non politicizzate, sovente retaggio del reclutamento di truppe alpine localizzato) l’autorità di Perotti era rimasta più che altro di tipo simbolico, per cui i comandanti politici, fra cui Braccini, avevano un tantino esteso le loro competenze. Comunque continuarono a trovarsi unitamente a lui, come unico Comitato. Fra poco sarebbe avvenuta la tragica fine di quelle riunioni. Quel giorno, Braccini gli si accostò molto gentilmente interessandosi della missione e gli diede un indirizzo di Susa imponendogli però di tornare in quella sede prima di stabilire il contatto, perché disse di volerne parlar con la professoressa Ada Marchesini.

Subito Tasso non ricordò chi portava questo nome. Solo alcuni giorni dopo si rammentò di conoscere quella persona: la madre di Paolo Gobetti, amico di suo fratello Franco, con cui aveva fatto tante passeggiate a Meana e dintorni, dove erano stati qualche anno prima, quasi vicini di casa durante la villeggiatura estiva.

Tornando al primo e unico incontro con Braccini, Tasso prese tempo.
Ne voleva parlare con Pardi. Fissaron un appuntamento per un giorno della settimana seguente. Sarebbevi tornato col più sapiente cugino. Uscito da quella sede, andò a mangiare all’Ala d’Italia, dove entrando, vide (e s’accorse di essere stato visto) una sua vecchia conoscenza: Silvio Geuna, un amico di famiglia di Chieri che da bambino gli faceva quasi da fratello maggiore nell’oratorio di Sant’Antonio, in quella cittadina natale per entrambi. Subito l’altro alzò il giornale davanti al viso.

Anche egli decise di ignorarlo. Appena finito di pranzare, si recò non molto lontano all’albergo Principi di Piemonte chiedendo del ragionier GianBattista Poletti (lo zio Titta, fratello maggiore di sua suocera e testimone per la sposa alle sue nozze). Lo mandarono nei vicini uffici della Società del Sestriere che amministrava gli alberghi di Torino e della località sciistica. L’incontro fu affettuoso e commovente e, con piacere ed emozione, Tasso ebbe notizie delle persone a lui più care: la sua sposa e la sua bimba che in quei giorni avrebbe compiuto un anno.

Da Pordenone s’erano trasferite in campagna, a Villanova di Ghirano presso Puja. A Villanova, sua suocera aveva una grossa cascina dove vivevano i mezzadri che Tasso aveva conosciuto di sfuggita in un viaggio di poche ore. Dirimpetto alla cascina vi era una costruzione rurale da una parte, a due piani. Sopra, l’allevamento dei bachi da seta; sotto, s’eran ricavate due stanze abitative, dove vivevano, frai disagi, in quattro.

Quattro generazioni femminili in linea retta: madre e figlia, una della altra. Bisnonna, nonna, mamma e bambina. La nonna e la mamma erano, per i mezzadri: la “parona” e la “paronsina”. Col telefono messogli a disposizione dallo zio Titta, si mise in contatto con un altro suo zio: il professor Carlo Goria dell’Istituto di Chimica Docimastica della Facoltà d’Architettura del Politecnico di Torino. Qui lo raggiunse.

Lo zio Titta venne con lui, perché incuriosito (disse) da come fossero sistemati gli istituti scientifici universitari al castello del Valentino.

Sebbene fosse suo zio (fratello della mamma), lo zio Carlo non aveva neanche sette anni più di lui. Da quell’incontro in poi, quei due suoi zii diventarono volontariamente membri associati della Winchester e misero la loro preziosissima ospitalità volutamente ignara a disposizione dei membri effettivi. Lo zio Carlo rese disponibile il suo appartamento di corso Vinzaglio (ora Corso Duca degli Abruzzi), allora disabitato, dato che la famiglia era sfollata a San Paolo, piccolo paese dell’Astigiano, vicinissimo a quella Val Goria, ove la loro missione avrebbe dovuto scendere col paracadute, se ciò si fosse realizzato. In quell’alloggio, una settimana più tardi, eran già da giorni residenti Giuseppe (ospite ignoto allo stesso padron di casa) e Mario che alla portinaia era stato presentato come nipote di quello zio non suo e che era ormai dotato di una copia delle chiavi di casa. Tasso e Pardi sarebbero stati ospitati a Reaglie (frazione collinare di Torino), dov’attualmente viveva lo zio Titta, nella grande villa di Strada Pavarino, di sua proprietà. Qui era sfollato, con la moglie, zia Elena, la figlia Paola e la nipotina Maria Grazia, figlia di Paola. Avendo organizzato in poche ore tutto ciò, Federico pieno di ammirazione riconoscente per il patriottismo e l’affetto per lui di quei generosi parenti, tornò a Genova. Giulio fu sollevato dalle sue pessimistiche preoccupazioni per tanto rapido e concreto successo. Giunti senza incidenti a Torino, sistemati Giuseppe e Mario, con l’intervento diretto dello zio Carlo, i due CUGINI si presentarono alla villa del Pavarino. Tasso si ritrovò circondato da premure gentili e affettuose e Giulio conquistò il nuovo ambiente, specialmente quello femminile adulto, con la sua disinvolta cortesia e col suo indubbio fascino di esperto e sicuro uomo di mondo, corretto e pure spiritoso.

Il giorno dopo l’arrivo a Torino la loro attività fu febbrile e, per il resto, di successo, ma non nella cosa più importante: far SENTIR E PARLAR Giuseppe. «È certamente sordo e probabilmente muto», diceva con una competente comprensibile delusione Mario. Assicurava di aver posto con cura l’apparecchio e l’antenna nel modo più favorevole, prima nella piccola legnaia (dove Giuseppe, a riposo, era nascosto sotto la legna) e poi, audace, sul poggiolino angolare della sala, ma i segnali MORSE preliminari eran rimasti senza risposta. Tasso lo confortò dicendogli che certamente sarebbe andato bene la volta seguente. Secondo il piano che Mario illustrava loro, il successivo potenziale collegamento sarebbe stato due giorni dopo. Anche allora, però, Giuseppe tornò nella lignea tana senza aver parlato né riferito nulla. Lo zio, precedentemente al recente sfollamento, aveva comperato una stufa a legna, come molti in città quando per via delle difficoltà belliche d’approvvigionamento di combustibile per il riscaldamento centrale, molti termosifoni avevan smesso di funzionare e quello stanzino era diventato la sede della riserva del nuovo combustibile. Molto tempo dopo, quando aveva saputo quale importante apparecchio v’era celato, lo zio disse di comprendere ora la causa del trovarvi sempre i legni messi diversamente, quando s’era imposto di astenersi dall’indagarne il motivo, certo pericoloso e compromettente.

Intanto Giulio aveva dato la caparra per un alloggio, da usare in via ufficiale come studio tecnico e, in realtà, come base della missione, in via Groscavallo, presso l’interruzione, con biforcazione avvolgente, del Corso Vittorio Emanuele II, in corrispondenza della fabbrica-birreria Boringhieri. Ora quella birreria non esiste più: in quel luogo vi è la grande piazza Adriano ove al centro quel corso prosegue rettilineo.

In pochi giorni, l’idea si fece realtà. L’alloggio divenne lo Studio Tecnico degli Architetti Didi Avetta e Teresio Trabucco, nonché “covo” SF.

Teresio era un compagno di liceo e fraterno carissimo amico di Tasso, quando questi si chiamava Federico, come ora si sentiva di nuovo, in privato, sovente appellare. Era sfollato, con genitori e fratelli (era scapolo e lo è ancora) a Carignano, cittadina vicino a Torino, ove il compagno liceale l’aveva raggiunto per proporgli la loro idea che era stata accolta con incredulo felice entusiasmo. Dopo essersi brillantemente laureato in Architettura, dispensato non si sa perché dal servizio militare, lui e il suo amico Didi, architetto più anziano come età e laurea, avevano sognato di aprire uno studio, per dedicarsi alla libera professione, il più giovane a tempo pieno, l’altro parzialmente essendo impiegato all’Ufficio Tecnico Erariale.

Ora quel sogno si realizzava in pochi giorni, senza alcuno di quei gravi costi che essi non avrebbero potuto sostenere. Giulio si era incaricato di tutto. Sfruttando le conoscenze di Avetta, in pochissimo tempo, aveva ottenuto il telefono, intestato allo studio coi loro due nomi.

Aveva comperato mobili e attrezzature essenziali per i due scopi di quella dimora: un tecnigrafo enorme con tavolo inclinabile e sgabello rotondo girevole ed elevabile, scrivania e seggiole da ufficio; ma anche il fornello a gas ed i mobili da cucina, due letti, un cassettone e un armadio e tutto quanto altro occorreva per viverci lui stesso, con un eventuale ospite che, come vedremo, giunse dopo poche settimane.

Nel frattempo parlandone alla sera a Reaglie, quando lo zio rientrava dopo il lavoro (sovente con preziose provviste alimentari, extra tessera: vantaggio di occuparsi di approvvigionamenti alberghieri) lo stesso zio e Giulio avevano deciso che Franco‘Federico sarebbe andato, con un rapido viaggio in treno, a prendere la consorte Vera Rosa e la figlia Maria Carmen che ormai aveva compiuto il primo anno. Se tutto fosse andato bene, sarebbe tornato puntuale per l’appuntamento con Braccini.

Certamente il clima morale sarebbe stato entusiastico, per i successi organizzativi tanto rapidi, se non fosse stato per il silenzio totale di Giuseppe che si ripeté implacabile, non solo la seconda volta, due giorni dopo la prima, ma anche una terza e una quarta volta, anche nei giorni in cui Tasso era in viaggio in Veneto. Forse con incoscienza, Tasso aveva deciso di andare per prima cosa al Comune di Pordenone dove con estrema facilità (in quei giorni tristi gl’impiegati pubblici italiani eran per paura diffidenti, con palese ostilità oppure gentilissimi con quasi complicità non celata) ottenne una carta d’identità. Era un vero cittadino pordenonese, perché aveva assunto quella residenza, durante una breve licenza, quando era stato trasferito da Sabaudia al Gruppo dove aveva comandato la batteria a settembre. In quel momento avendo i documenti di riconoscimento militari, non aveva avuto bisogno d’altre carte, ma or con le fotografie, che s’era fatto fare a Torino, aveva ottenuto il documento senza che vi fosse registrata altra professione se non quella di studente (s’era infatti iscritto alla facoltà di Ingegneria dell’Università di Napoli, durante il servizio ai Granili).

Preceduto da un telegramma dello zio Titta che avvisava dell’arrivo di un suo non precisato fratello (avevano subito intuito Federico (a destra) con dei colleghi della Batteria. Sabaudia 27 maggio 1942 trattarsi di Federico) giunse a Villanova e come cognato della “PARONSINA” si presentò ai mezzadri, che finsero buoni buoni, di non riconoscerlo. Con moglie e figlioletta, preparate al trasferimento in una frenetica giornata, il pomeriggio del giorno’ seguente il felice ricongiungimento, ripartì per Torino, dove giunsero la sera del giorno dopo, avendo pernottato in un albergo della loro Venezia, amatissima da entrambi i coniugi. A Reaglie furono, con molto affetto, dagli zii colle cugine, ospitati fino alla Liberazione.

Quella grande confortevole villa fu per lui un rifugio gradevole e sicuro, ove tornar a ritemprarsi, fra un’azione avventurosa e l’altra.

Giulio presto volendo conoscere Vera Rosa e la piccola Maria Carmen, tornò, brillante ospite, a Reaglie. Prima di uscire, dopo la sobria cena, in cui si era divertentemente rivelata la finta parentela, colle nuove arrivate e forse anche cogli zii e le altre cugine (cosa che poi si avverò, come già detto), diede appuntamento a Franco a Porta Nuova alle 10 per recarsi all’incontro che questi aveva fissato con Braccini in via Orto Botanico. Eran i primi giorni d’aprile e la temperatura era mite, sicché si ritrovarono ambedue in giacchetta. Giunsero nel buio androne e Tasso, più distratto e soprattutto più distraibile e meno all’erta, non s’avvide di nulla di sospetto. Pardi invece, più attento e accorto salendo la prima rampa di quelle scale per lui ignote, gli disse sottovoce: «Attenzione! ho visto la portinaia guardarci con aria molto allarmata… come volesse avvertirci di qualcosa».

Subito decise di non fermarsi a quell’uscio: sarebbero saliti al piano superiore ed eventualmente tornati lì dopo. Così fecero. Al passarvi innanzi, disse ad alta voce: «Dovrebbe stare qui sopra».

Tasso, che lo seguiva, vide la porta, sicuramente non chiusa a chiave, aprirsi silenziosa di una lieve spiante fessura e raggiunse il cugino.

«Hai ragione: probabilmente il covo è bruciato…andiamocene!» gli sussurrò quasi impercettibilmente, ma il CUGINO salì e suonò alla prima porta. Venne ad aprire una massaia in vestaglia che chiese: «Chi siete?» «Scusi, signora, forse ci hanno riferito cosa errata, ma abbiamo saputo che ha bisogno di sale…». L’altra chiuse la porta, ma Pardi continuò a voce alta fingendo quella gli desse retta: «Noi siam in grado di procurargliene quanto ne vuole». Dopo un po’, sempre ad alta voce, con tono deluso: «Anche qui ci è andata buca… proviamo da quell’altra». Tasso ne fu ammirato e si propose di imitarlo, se del caso.

Ridiscesero molto lentamente senza alcuna difficoltà fino a pianterreno.

Appena fuori, si separarono e la loro andatura divenne assai veloce.

Fu salvifica per entrambi l’astuta prontezza intuitiva di Giulio. Franco raggiunse rapidamente via Madama Cristina, dove prese un tram già in movimento (la cosa allora era possibile: oggi non lo sarebbe più, per la mutata conformazione dell’apertura d’accesso alle vetture) e, dopo un lungo ozioso, ma per le prudenti norme di sicurezza non inutile, giro si recò nel covo di via Groscavallo. Qui Giulio già l’attendeva.

Ora decisero di tastar gli altri indirizzi forniti direttamente o meno dal colloquio con Braccini. Sepper il giorno seguente, del suo arresto, che i giornali pubblicizzaron molto, su imposizione dei Tedeschi occupanti e dei lor servili manutengoli fascisti. Seppe poi dal suo vecchio amico, casualmente intravisto all’Ala d’Italia, Silvio Geuna (quando questi era già un Onorevole, membro della Camera dei Deputati) tutti i particolari di quell’arresto e dell’immediato conseguente ammonitore processo. Il CMRP al completo: Perotti (col suo aiutante maggiore: appunto Geuna) e molti altri, fra cui Braccini, si trovavano nella Sacrestia del Duomo di Torino dove si incontravano sovente. Geuna, quando irruppe la polizia fascista, scortata da militari tedeschi abbondantemente armati, era, un istante prima del lor arrivo, riuscito a infilar una parte (non tutte) di carte compromettenti, che stavan usando in quel momento, in un armadio, (messo a lor disposizione dal complice, ma molto segretamente, cardinal arcivescovo). Per nascondere all’istante la chiave, l’alto ufficiale si era subito calzato i guanti e l’aveva infilata nella mano sinistra.

La polizia li aveva fatti tutti quasi completamente svestire fra le proteste e le comprensibili difficoltà dell’anziano generale.

Il suo aiutante raccontava come fosse a disagio: seminudo, ma coi guanti.

Nessuno di quelli però glieli aveva fatti togliere. Poi rivestitisi, dovettero far fronte a minacciosi interrogatori intesi a trovar altri documenti.

Resi sospettosi forse da come molti dei “COLPEVOLI” guardavano l’armadio, ordinarono ai terrorizzati sagrestani di aprirlo subito, ma quelli, con voce malferma, sostennero che vi erano cose riservate del Cardinale Arcivescovo invitandoli, se proprio volevano, a recarsi alla di lui non lontana residenza per avere le chiavi, se sua Eminenza fosse stato tanto cortese da fornirle loro. Di fronte a tale risposta, i fascisti avevano desistito. Al processo, Perotti, Braccini e molti altri erano stati poi condannati a morte immediatamente. Geuna, scapolo, condannato all’ergastolo si era offerto di cambiare la sua condanna con quella del suo generale e, in tal modo, salvar la vita d’un padre di famiglia. Tasso venne a conoscenza di quest’ultimo particolare non dal suo generoso amico, ma nella casa di Ada Gobetti, di cui si dirà presto, da uno che di persona aveva assistito al feroce processo, dove Perotti aveva ordinato l’ATTENTI ai condannati e gridato: “VIVA L’ITALIA!” I condannati a morte vennero fucilati subito al poligono di tiro del Martinetto che ora non esiste più. Un’altra organizzazione che crollava, forse anche questa per la dilettantistica tragica imprudenza con cui gl’improvvisati cospiratori affrontavan la lotta clandestina. Comunque decise, con l’approvazione di Pardi, di fare due cose prima di recarsi assieme a lui a Susa, all’indirizzo datogli da Braccini. La prima era individuare un nuovo punto amico per tentare di far colloquiare Giuseppe con la lontana base di Brindisi. A questo scopo avrebbe cercato un altro suo antico fraterno amico, il dottor Paolo Menzio. In breve lo rintracciò qual assistente di qualche allora illustre professore della Clinica Universitaria dell’Ospedale Molinette di Torino dove poi divenne egli stesso cattedratico di Otorinolaringoiatria, parecchi anni dopo.

Paolo Menzio era stato suo compagno di scuola alle inferiori, per due soli trimestri, all’Istituto Tecnico Sommeiller e da allora erano diventati grandi fedeli amici.

Era uno dei primi della classe e si faceva ammirare per molte buone ragioni. Setio, coraggioso, intelligente, spiritoso, generoso, educato, colto e diligente senza essere per nulla sgobbone: per anni era stato un modello da imitare e, senza volerlo confessare, anche da invidiare.

Fin da quando erano nella stessa classe, si frequentavano abitualmente, conosciuti e apprezzati anche dai rispettivi genitori. Federico aveva con Paolo un enorme debito di riconoscenza, contratto all’esame di 4‘.

Bisogna sapere che in quella classe numerosissima (quasi 40 tra maschi e femmine) egli era giunto ai primi di gennaio del 1933, proveniente da Mantova. Il professore di stenografia di quella città era adorato dai suoi non molto veloci allievi, perché soleva dir loro: «Nei nostri Programmi Ministeriali è prescritto che la prova che dovrete sostener al prossimo esame sia di 60 parole al minuto. Ma voi non preoccupatevi perché ci sarò io, che non ne detto mai più di 30 al primo. È tradizione che, per la stenografia, l’esaminatore sia sempre un membro interno».

Giunto a Torino, Federico, in stenografia non aveva mai raggiunto una votazione superiore ai tre decimi, con disperazione sua e della molto severa insegnante che già a gennaio dettava a più di 50 al minuto.

Il giorno dell’esame, era rassegnato all’essere rimandato a ottobre, con la prospettiva di lunghe tristi vacanze, molto stenografiche.

L’inflessibile professoressa, certo per sorvegliarlo meglio, l’aveva fatto sedere in uno dei primi banchi, e, proprio su questo banco appoggiata, aveva passato quasi tutto il tempo, fra la fine della dettatura e la scadenza del tempo ultimo per la consegna del testo tradotto nella normale scrittura e del fascicolo stenografato. Egli aveva consegnato una traduzione con non molti errori, mentre il fascicolo stenografico era un insultante coacervo di sgorbi e lacune. Così aveva poi riferito a suo padre il professor di religione, membro della Commissione.

Questi, di fronte alle dichiarazioni della professoressa stenografa, che giustamente diceva essere impossibile la traduzione da una tale brutta sorgente, aveva detto che la promozione non poteva essere omessa senza l’accertamento che vi fosse stata frode approfittando di una colposa assenza di sorveglianza. L’altra aveva ribattuto affermando la sua particolare attenta personale sorveglianza e allor era stato promosso.

Il merito di quella promozione inaspettata lo doveva proprio all’amico Paolo che era seduto nel banco dietro il suo e che traducendo dettava sottovoce con tale abilità per cui egli sentiva e scriveva quasi ogni parola, ma la sorvegliante, per fortuna, non udiva nulla. Ora, questo sincero amico ha cessato di vivere, ma l’altro lo ricorda ancora con ammirazione, gratitudine e affetto. Dopo quell’esame, ambedue si erano iscritti al Liceo Scientifico Galileo Ferraris, allora in via S.Ottavio, ma eran capitati in due sezioni diverse: Paolo nella A, Federico nella B.

Quest’ultimo con difficoltà specialmente in tedesco, per cui, come detto, fu poco brillante interprete; l’altro, invece, sempre con media l’otto, tanto bravo da poter sostenere, con pieno successo, l’esame di maturità, con un anno d’anticipo. Ma torniamo ai primi giorni d’aprile del 1944. Il medico si fece immediatamente coinvolgere dall’amico e da subito divenne, a quasi tutti gli effetti operativi, il quarto membro della Winchester. Assieme andarono da Mario a conoscer lui e anche Giuseppe. Quando vide la strana valigetta, disse subito che poteva, con un po’ d’approssimazione, apparire un elettrocardiometro portatile. Si rammaricò di non avere più a disposione un libretto illustrativo di una valigetta molto simile a quella di Giuseppe, di natura clinica cardiologica.

Comunque s’accordò coi cugini, per mettere a disposizione la sua casa e il cortile di Gassino, cittadina a pochi chilometri dalla periferia di Torino, verso Casale, dove aveva sovente ospitato il suo caro amico.

Se il collegamento fosse riuscito, Giuseppe sarebbe rimasto presso di lui e di sua madre (vedova, essendo lui orfano di padre fin da ragazzino) mentre Mario sarebbe tornato ad abitare in casa del nuovo zio professore e da qui avrebbe raggiunto il suo apparecchio colloquiante, ogni volta che il piano di collegamento l’avesse previsto. Giulio gli acquistò una bicicletta, con portapacchi anteriore. Gli fece ripeter innumeri volte: «Porto questo ELETTROCARDIOMETRO al dottor Menzio di Gassino».

Franco gli spiegò l’esatta ubicazione della casa, a lui ben cara (che comunque era nota ai vicini essendo il dottore conosciuto Îì attorno).

Pertanto Mario, il pomeriggio previsto, partì portando Giuseppe che a sera purtroppo ritornò nella legnaia del professor Goria essendo stato ancora una volta sordo e muto. Mario, pur amareggiato per il fallimento da lui pronosticato, era orgoglioso d’avere brillantemente superato un controllo fascista all’andata, al ponte in fondo a corso Belgio.

Per evitare il ripetersi di tale controllo, rientrato a Torino, aveva proseguito per corso Casale fino alla Gran Madre. Ora raccontava: — Eran in due in divisa fascista. Io, secondo le vostre raccomandazioni mi sono subito fermato, buono, buono. M’hanno chiesto: «Cosa c’è in quella strana valigia?» e io, come mi avevate detto: «Porto questo MICROSCOPIO al dottor Menzio di Gassino» e quelli: «Ce lo faccia un po’ vedere». Io ho aperto Giuseppe e quelli dopo averlo guardato a lungo: «È proprio un MICROSCOPIO. Vada pure!»” I cugini non sapevano, a questo punto, se sgridarlo o felicitarsi con lui, poi scoppiarono all’unisono in una sonora risata. Quella sera stessa, Tasso telefonò al numero di Ettore Marchesini che sulla guida era indicato all’indirizzo di Via Fabbro 6. Gli rispose una voce femminile a cui egli chiese: «Parlo con la mamma di Paolo?» alla risposta affermativa: «Signora, a Meana non ci siamo mai incontrati, ma, con Paolo, sovente. .

Son il fratello maggiore di Franco, ch’era molto amico di Paolo e di Gianni Jarre di cui ho conosciuto le sorelle Anna e Paola, in gita al Rocciamelone nel ‘39 o nel ‘40. Con Paolo e con mio fratello ho invece fatto gite e passeggiate, moltissime volte.

Ora, un certo professore di zoologia, che purtroppo non si può più andare a trovare, mi aveva detto di voler parlare con lei, di cui m’ha dato l’indirizzo, prima che io andassi a Susa per cercare una specie rara di insetto». A questo punto, Ada Gobetti, resa meno diffidente, disse: «Se l’ha detto il professore, vada pure a Susa, in via…» ripetendo la via dell’indirizzo datogli da Braccini. Poi aggiunse, per far sapere di avere ben capito chi fosse colui che le telefonava: «Capisco perché si interessa di insetti: Paolo, un giorno, è venuto a casa vostra, alla borgata Campo del Carro e ha visto un altro suo fratello che aveva delle gabbiette di tulle per crisalidi e farfalle, perché è un appassionato entomologo».

«Si tratta di mio fratello Giorgio, quello che non può fare lunghe passeggiate. Signora Professoressa, spero di conoscerla presto».

Per capire il perché di quest’ultima precisazione, bisogna sapere che questo suo fratello, di due anni più giovane di lui, per essere stato da fanciullo investito da un’automobile, dopo una travagliata infanzia e adolescenza d’ingessature e costose cure elioterapiche, era rimasto vistosamente claudicante. Siccome si era sparsa la voce che la polizia fascista aveva automezzi particolarmente attrezzati con cui girava per le strade di Torino, alla ricerca di emittenti clandestine, che 1 suoi radiogoniometri erano in grado di individuare, decisero che Giuseppe non avrebbe più tentato di parlare, finché non lo avessero portato in Val Susa. Tasso, il giorno dopo la telefonata con Ada Gobetti partì per Susa, che raggiunse in treno, dopo una sosta imprevista di diverse ore alla stazione di Bussoleno e si recò all’indirizzo indicato.

[fine]