Nel suo libro Storie di giustizia, ingiustizia e galera (1944-1992), edito da Linea D’ombra nel 1994, Bianca Guidetti Serra ha ricostruito le vicissitudini del processo ai responsabili della morte di Emanuele Artom.
Di seguito, le pagine dell’esito della sua ricerca tratte da Un granello di sabbia, sito ufficiale della Associazione Bianca Guidetti Serra.
1964 Sono trascorsi più di vent’anni, e una sera riandando con amici al tempo passato, si discorre di Emanuele. Di lui il ricordo è ben presente. Ma i suoi torturatori furono individuati, giudicati, con quali esiti?
E qui la memoria di ciascuno si confonde, diviene approssimativa. Non solo: c’è chi si chiede se valga la pena ricordare quei fatti infami. Le opinioni sono divise. Io decido di rivangare un po’ quel passato.
Comincio dall’archivio della Corte d’Assise di Torino, che ha giudicato una parte della vicenda. Il fascicolo del processo dapprima non si trova. Mi aiuta con la memoria un vecchio Cancelliere: “Guardi che è finito in Cassazione, e poi a Genova …” Insomma, lo trovo quel benedetto fascicolo, incompleto, privo di molti verbali e di altri atti, ma l’essenziale, la sentenza e qualche documento rilevante ci sono. Quanto basta per ricostruire una storia esemplare.
“In nome del popolo italiano”. La sentenza di primo grado era stata pronunciata il 19 aprile 1951. Imputato, per quanto concerneva Emanuele (il processo aveva giudicato anche altre persone), Arturo Dal Dosso, capitano del 1° reggimento SS italiane. L’accusa “collaborazionismo militare e politico … per avere dopo l’8 settembre 1943 e fino alla Liberazione, specie nel marzo 1944 in Torre Pellice, Luserna San Giovanni, Bibiana ed altri paesi del pinerolese, in unione con altri rimasti sconosciuti (c.d.r.) per favorire le operazioni del nemico nazifascista e nuocere a quelle dello Stato italiano denunciato, rastrellato, seviziato partigiani e persone che ad essi prestavano aiuto, perquisendo, e saccheggiando, incendiando le loro case e in particolare …” e qui l’elenco delle parti lese e dei misfatti compiuti. Inoltre, continuava il capo di accusa, per avere “… usato sevizie particolarmente efferate a Balonsino Giovanni, Jervis Guglielmo, Artom Emanuele, Lombardini Jacopo, persone che vennero tutte in seguito o fucilate o condotte in campi di eliminazione in Germania o che morirono in seguito alle sevizie”. Degli atti ho letto quanto ho trovato a sostegno dell’accusa e della difesa, compreso un memoriale inviato il 12 novembre 1949 da località ignota da Dal Dosso che, occorre ricordarlo, fu sempre latitante. In esso l’imputato contesta ogni responsabilità: Artom, Lombardini, Jervis “mai sentiti nominare”; nulla sa di seviziati o di uccisi. Nel periodo del rastrellamento egli si trova in ospedale perché ferito. A contraddirlo sta la decisione dei giudici. Una decisione scarna, troppo sintetica forse, portatrice però non solo della verità formale di un “passaggio in giudicato” (finito in Cassazione, il processo fu definitivamente sentenziato dalla Corte d’Assise di Genova), ma che ci restituisce con l’esposizione dei fatti, accertati dalle deposizioni numerose e convergenti dei testimoni, almeno in parte la storia della tragica fine di Emanuele e di alcuni suoi compagni. E di riflesso, quella del loro persecutore principale.
Certo Dal Dosso non fu il solo responsabile. Di tutti quegli ignoti di cui fa riferimento la contestazione, quelli che hanno accettato od eseguito gli ordini, quelli che hanno infierito per malvagità, o sadismo, o incapacità di reagire, o viltà nulla sappiamo. Al tempo forse non furono cercati o non lo furono con la dovuta diligenza. Anonimi, irreperibili. La sola memoria che resta è quella delle loro efferatezze, della loro brutalità, della loro mancanza di umanità. Non sono stati e non potranno mai più essere perseguiti: li denunciamo tuttavia alla storia (e non suonino retorica queste parole).
E Arturo Dal Dosso? Di lui invece qualcosa sappiamo dalle carte processuali. Ecco, senza commento, qualche brano testuale della motivazione della sentenza quando si avvia alla conclusione: “…per gli articoli 5 D.L.L. 27 luglio 1944 n. 159 e gli articoli 51 e 58 del Codice Penale Militare di guerra si dovrebbe applicare al Dal Dosso la pena di morte. Abolita questa, si deve applicare l’ergastolo…”
No quindi alla pena di morte. E su questo saresti stato anche tu d’accordo, Emanuele, almeno così credo.
Non a caso il 27 novembre 1943, ancora nel tuo diario, ricordando una conversazione con tuo padre, hai annotato: “… dissi, che quale commissario politico, spero di poter salvare qualche imputato dai tribunali rivoluzionari; mi rispose ricordandomi il detto talmudico che un tribunale che pronunzia una condanna a morte una volta al secolo deve essere considerato severo”.
La pena capitale è dunque commutata in ergastolo. Ma il 22 giugno 1946 è stata emanata un’amnistia (la così detta amnistia Togliatti), per cancellare, in occasione della proclamazione della Repubblica, i delitti “politici” commessi dall’attività partigiana o “collaborando con l’invasore tedesco”. Sono però previste alcune esenzioni dal beneficio. Così Dal Dosso non potrà essere amnistiato per vari motivi: si è volontariamente sottratto alla cattura, è responsabile di saccheggio, di omicidio, e di aver inferto “sevizie particolarmente efferate” ai prigionieri.
E, continuiamo a leggere nella sentenza, “in pochi giorni 10 case furono bruciate a Luserna e circa 50 in quella valle; spesso prima di essere incendiata la casa veniva completamente svaligiata e dopo l’incendio le SS passavano ancora ad asportare i pochi mobili rimasti.
Più di una volta una casa fu svaligiata in presenza dello stesso Dal Dosso. Non si tratta quindi di una manifestazione singola, sporadica, di rapacità e brutalità, ma di un modo di agire sistematico, all’evidente scopo di terrorizzare la popolazione e di costringerla a piegarsi al giogo nazifascista; agire sistematico che non avrebbe potuto avere la sua attuazione senza le direttive e l’incitamento di un comandante autoritario come il capitano Dal Dosso”.
“Ma l’esclusione dall’amnistia, continua ancora la sentenza, deriva soprattutto dall’essere egli responsabile di “sevizie particolarmente efferate. “Per tali si intendono … oltre le torture crudeli, strazianti, universalmente riconosciute e condannate come atti di alta criminalità, anche tutte quelle rilevanti sofferenze fisiche e morali inflitte senza alcun senso di umanità a soggetto passivo… Orbene, si può discutere se le sevizie abbiano raggiunto un così alto grado nel caso del Jervis, che pure fu torturato tanto che i suoi indumenti non erano più che un grumo di sangue; nel caso del Lombardini, che fu ridotto al peso di 45 chili ed al quale furono buttati giù tutti i denti… Ma fuori ogni discussione è il caso dell’Artom. Il povero martire fu frustato con tubi di gomma e con cinghie sul torso nudo; gli furono messi sul torso nudo e piagato pesanti massi; fu sforacchiato a colpi di baionetta; gli furono conficcati spilli sotto le unghie; gli fu mozzato un orecchio, fu ferito a un occhio; gli furono strappati i capelli e gettati giù i denti, gli fu perfino rotta la vescica; fu immerso nell’acqua gelata e poi investito di getti d’acqua bollente… Quando fu ridotto a pietose condizioni, egli fu per ludibrio dalla soldataglia, posto a cavallo di un mulo, che veniva fatto saltare a colpi di bastone, a torso nudo, tutto piagato di ferite, con un cappellaccio in testa ed una scopa in mano… Non vi è dubbio che sia stato sottoposto ad una delle più penose mortificazioni della dignità umana… Il Dal Dosso stava a guardare simili infamie senza dire nulla, egli, l’unico capitano, l’ufficiale più alto in grado del posto….Ciò significa che con gusto sadico si compiaceva di tali sevizie, le permetteva, le consentiva, le approvava. Le SS italiane per quanto feroci non si sarebbero mai permesse simili eccessi senza il preventivo consenso di un comandante autoritario e dispotico come il Dal Dosso. È quindi palese la correità morale del Dal Dosso con gli esecutori materiali delle sevizie”.
Avevi annotato nel tuo diario, Emanuele, il 28 dicembre 1943: “Questa vita disagiata e faticosa è molto più dura di quella del soldato… Si aggiunga che per il soldato la prigionia può essere un rifugio. Per noi è la morte, e che morte ! La morte di un partigiano a cui i tedeschi strappano le unghie pochi giorni prima di farlo fucilare”. Metto in corsivo il macabro presagio delle sofferenze in realtà poi subite.
La sentenza nega ogni attenuazione di pena, pur richiesta dalla difesa di Dal Dosso, perché ex combattente della guerra italo austriaca 1915-‘18, fronte italiano e macedone, della campagna di Libia 1919, della campagna per la conquista dell’impero 1936-’39 e campagna di Grecia e Balcani, con due decorazioni al valore militare. “Non solo di tali asserzioni non c’è prova in atti e di lui si sa soltanto che era incensurato e ferroviere”, osservano i giudici, “ma il martirio dell’Artom e la barbara uccisione dei partigiani Ferrero e Costabel (uccisi nello stesso rastrellamento in modo barbaro, n.d.r.) sono tali da dimostrare spento ogni spirito di pietà e ogni più istintivo senso di umanità…”
Allora ergastolo ? No, perché il già ricordato decreto di amnistia prevede, senza eccezioni in questo caso, la commutazione delle pene “con la conseguenza che l’ergastolo è commutato in trent’anni di reclusione”.
Intento, fra indagini e dibattimento, è intervenuta un’altra sanatoria (D.P. 19 dicembre 1949 n. 922) che consente di ridurre i trent’anni di reclusione comminati a Dal Dosso a dieci.
Ancora trascorre del tempo. Sempre per la pacificazione fra i cittadini, su proposta del ministro della giustizia Gonnella, viene emanata una nuova amnistia (D.P.R. 11 luglio 1959 n. 460) perché, dice la relazione al provvedimento “estingua tutti i reati politici, quasi a cancellarne il triste ricordo, commessi dall’8 settembre 1943 al 18 giugno 1946 in un periodo in cui la passione e il turbamento degli animi, spingendo ad una lotta fratricida fecero temere il dissolvimento di quell’unità, non solo territoriale, ma anche degli spiriti”. In questo caso il condannato però deve soddisfare una condizione: costituirsi all’autorità giudiziaria italiana.
E a questo punto che l’introvabile capitano, che avrebbe da scontare dieci anni, si fa vivo, e si presenta al Console Generale italiano di San paolo del Brasile. A lui, il 29 luglio 1959, dichiara, come si legge nel verbale “Uscito da Coltano, sono vissuto ad Albese (Como) fino all’agosto 1947. Dall’agosto ’47 al novembre del ’48 sono stato ospitato da una Confraternita religiosa dell’Italia centrale. Dal novembre ’48 al novembre ’52 sono stato nella Legione straniera spagnola a Tahimina (Melilla) nel Marocco spagnolo. Dal ’53 mi trovo in Brasile… “ Ricordata la sua storia, il Dal Dosso chiede l’applicazione dell’amnistia.
La domanda viene trasmessa alla Procura Generale della Corte d’Appello di Torino, competente a decidere. Scriverà il Procuratore: “Il condannato con la costituzione ha ottemperato alla condizione prevista di “sottomissione alla maestà della legge”, pur presentandosi solo a un Console. Infatti la legge consolare, art, 20 Legge 15 agosto 1858 n. 2984 del Regno Sardo (non si sbaglia, è proprio così), attribuiva (ancora attribuisce) a tali autorità la qualità di giudici”. La Corte d’Appello pertanto: “ ritenendo che con la presentazione avanti alle autorità consolari possa ritenersi avverata la condizione alla quale la legge subordina l’applicazione dell’amnistia ai latitanti, dichiara il reato di collaborazionismo estinto e quindi estinta la relativa pena”. È il 2 ottobre 1959.
La storia, quella parte che ci interessa, non finisce qui. Quel fascicolo, monco di tanti atti, comprende ancora un documento autografo dell’amnistiato. che credo, valga la pena di trascrivere quasi integralmente.“5 febbraio 1960 San Paolo (Brasil) – Signor Presidente della Corte d’Assise di Torino, il sottoscritto Arturo Dal Dosso … espone: cotesto Tribunale gli concesse di beneficiare dell’ultimo provvedimento di amnistia per la condanna politica inflittagli con sentenza 19 aprile 1951. Siccome il sottoscritto fino alla data della condanna percepiva una pensione ferroviaria dallo Stato .. e il provvedimento di clemenza annulla reato e pena gli spetterebbe la pensione stessa. Il Ministero dei Trasporti con sua nota … per riconcedere la pensione chiede una documentazione dell’avvenuta effettiva concessione del provvedimento di clemenza. Su consiglio dello stesso Console Generale il sottoscritto prega cotesto Tribunale di voler essere così compiacente di informare direttamente il Ministero, Direzione Generale delle Ferrovie dello Stato, dell’avvenuta effettiva concessione del provvedimento di clemenza”.
Il 26 novembre 1960 la Cancelleria provvede.
Sono trascorsi altri anni. Da tempo a Emanuele è stata intitolata una lunga via che, attraversato uno dei nuovi e sterminati quartieri della periferia, sbocca giusto nei pressi del Sangone. Vi abitano molti degli strati poveri ed emarginati della città. Per il mio mestiere ho a che fare, talvolta, con qualcuno di via Artom. E mi accade di pensare che forse non ti sarebbe spiaciuto, Emanuele, di figurare tra le targhe stradali di un simile quartiere. Credo ne avresti sorriso bonariamente: una piccola beffa ai tuoi nemici. Qualcuno si sarebbe pur chiesto, leggendo il ripetersi del tuo nome, di isolato in isolato: ma chi era questo Artom? E la risposta: “un combattente per la libertà”, come sta scritto, estrema sintesi della tua vita. Ancora una volta a compiere la tua missione di educazione civile.
Qui la sentenza.
Qui un articolo su Via Artom a Torino, la via che forse non sarebbe dispiaciuto ad Emanuele vedersi dedicare. Racconta a proposito di Via Artom Diego Novelli, eletto sindaco nel 1975: «Io e Dolino (l’allora Assessore all’Istruzione) a chi rompeva i vetri delle scuole, dei lampioni della luce o altre forme di vandalismo, rispondevamo “voi rompete e noi li rimettiamo”. Non ci stancammo mai.»