Ecco le pagine che Bianca Guidetti Serra ha dedicato a Emanuele Artom nel suo libro Storie di giustizia, ingiustizia e galera (1944-1992), edito da Linea D’ombra nel 1994. (Da Un granello di sabbia, sito ufficiale della Associazione Bianca Guidetti Serra)

19 marzo. Mi fermai ancora a salutarti con la mano.

Eri fermo su un dosso, la giacca a vento chiara sui pantaloni alla zuava, sempre più in alto rispetto a me che scendevo il prato a balzelloni. Rispondesti salutando anche tu con la mano.

Era domenica. Nei giorni precedenti si era combattuto a Perosa Argentina e dintorni. Era in corso una sorta di tregua, ma tutti sapevano che non poteva durare. Da un momento all’altro sarebbe cominciato il rastrellamento. Ecco perché quando arrivai quel mattino a “La Gianna”, trovai grande agitazione. Si incrociavano voci e richiami. Chi dava ordini, chi si preparava per la partenza, chi imprecava per gli scarponi malconci o per la mancanza di armi. Qualcuno già si stava avviando curvo sotto il peso del sacco.

Mi venisti incontro, Emanuele: “Debbo chiederti un favore, visto che stai per tornare in città”. Non ci eravamo mai frequentati, ma ci conoscevamo da tempo, ed avevamo molti amici in comune. “Come Commissario Politico vorrei svolgere un po’ di educazione fra questi giovani partigiani. Penso a quando si tratterà di ricostruire il paese. Non sanno nulla di partiti, di sindacati, di democrazia. Corriamo il rischio che le cose tornino come prima”.

Pensavi al dopo! Le parole esatte forse non furono quelle e non vorrei suonassero artificiali a 50 anni di distanza, ma tante volte le ho ricordate e credo di non essere infedele nel riferirle, quantomeno nel contenuto. Del resto coincidono con quanto hai scritto nel tuo diario il 26 gennaio 1944: di quel giovane pronto a collaborare con i partigiani ma che dichiarava di non avere alcuna opinione politica. “Gli ho risposto quanto da due settimane vado ripetendo ai miei uomini: il fascismo non è una tegola cadutaci per caso sulla testa; è un effetto dell’apoliticità, e quindi dell’immoralità del popolo italiano. Se non ci facciamo una coscienza politica non sapremo governarci e un popolo che non sa governarsi cade necessariamente sotto il dominio straniero o sotto la dittatura…”.

“Parlare non basta – insistevi con me – occorre qualche libro adatto che parli di quei problemi, che stimoli alla lettura, alla discussione…”.

Il mio primo pensiero fu: “Come trovarli sotto l’occupazione nazifascista, quei particolari libri già difficilmente reperibili prima della guerra?”

Cogliesti dall’espressione la mia perplessità: proprio perché c’erano delle difficoltà chiedevi aiuto. Vivendo in città forse avrei potuto scovare qualcosa. E io mi impegnai.

Cominciammo così a discorrere del tuo “progetto culturale” e poi anche di tante altre cose. Per questo, quando mi incamminai per raggiungere Perosa alla ricerca di qualche mezzo che mi consentisse il ritorno a Pinerolo e poi alla città, mi accompagnasti per un tratto fin quando elementare prudenza consigliava di non avvicinarsi troppo alla zona che segnava la precaria fascia “libera” al di là della quale stavano i fascisti.

Nella settimana successiva, essendo inutile rivolgersi ai rivenditori, frugai nella mia biblioteca e in quelle ancora disponibili degli amici. Invero, in quei tempi appariva un po’ strano cercare libri anziché viveri, indumenti, denaro, e, perché no, armi. Qualcuno che ritenni utile tuttavia lo trovai, tanto da riempirne uno zainetto. Non sarebbero serviti.

21 marzo. Cominciò il grande rastrellamento e proseguì nei giorni successivi, avanzando man mano verso l’alto della montagna e diramandosi a raggera per strade e sentieri. La domenica successiva tentai invano di raggiungere la Valle Germanasca. All’imbocco fui fermata bruscamente e rimandata indietro. Improbabile turista in quella stagione e in quella situazione, non essendoci mezzi per il ritorno riparai a Perosa, in una sorta di alberghetto-trattoria e attesi. Dalla mia stanza udivo qualche raro e lontano scoppio di arma da fuoco. Udivo pure la gente, la poca che occhieggiava tratto-tratto dalle finestre socchiuse, parlare di prigionieri, di feriti, di morti. L’insistere per più precise notizie non sarebbe stato prudente, avrebbe potuto indurre a sospetti. Il mattino successivo mi infilai in una “corriera operaia” che scendeva a Pinerolo e tornai in città con lo zainetto intatto.

Solo in seguito conoscemmo i particolari del rastrellamento. Quelli de “La Gianna”, pochi, male armati, non erano in condizioni di sostenere uno scontro frontale. Presero dunque a salire verso l’alta valle disperdendosi a piccoli gruppi. Anche Emanuele si incamminò. Ma che improba fatica! La primavera inclemente aveva lasciato i sentieri ingombri di neve ed anche i prati ne erano ricoperti. Rare le soste, forzatamente brevi, raro il cibo. E soprattutto occorreva muoversi, muoversi più celermente possibile, con la gola arsa, ché la neve non disseta. Col nemico incalzante alle spalle, e che allo stesso tempo poteva, improvvisamente, comparire di fronte.

25 marzo. La fuga durava ormai da vari giorni, Il gruppo con cui marciava Emanuele aveva ormai valicato il colle Giulian a più di 2500 metri, e sperava di riparare in Val Pellice. Erano, i fuggitivi, ad una quota ancora abbastanza alta, quando, (così il racconto mi è stato fatto) attraverso la nebbia che sfumava le immagini intravidero fra rocce e pinastri, in lontananza, degli uomini in divisa. Chi erano? Compagni, nemici?

Si accompagnava al gruppetto un certo M.D., uno della Milizia che qualche tempo prima era stato fatto prigioniero dai partigiani e graziato. Ritirandosi lo avevano condotto con loro ( e che altro fare, se non si è di quelli che i prigionieri li fucilano?). Impudente, si offrì di andare in ricognizione: “Se sono fascisti a me non faranno nulla!”. Si fidarono, e lui tradì. La piccola squadra si rese ben presto conto di essere sotto la minaccia delle armi delle SS italiane. Di corporatura esile, non abituato ad attività fisiche pesanti, anche se da quando era “in banda” appariva irrobustito, Emanuele era esausto e, particolare solo apparentemente banale, aveva esaurito la simpamina di cui si era munito e di cui aveva fatto uso fin lì.

A coloro che tentavano la fuga disperdendosi e lo incitavano a seguirli, a non accettare la resa che veniva intimata, disperatamente disse: “Non posso!”

Forse si illudeva sulla promessa (che pare sia stata fatta) “Vi tratteremo da prigionieri di guerra!”

Allora ripeté: “Compagni , non posso!”. Così si fermò. Con lui rimase, per scelta, il diciassettenne Ruggero Levi, già suo allievo e a lui devotissimo. Con altri, vennero rinchiusi dapprima nel Municipio di Bobbio Pellice, poi nella Caserma Airali di Luserna San Giovanni. Qui la tragedia di Emanuele ebbe inizio…

 
 
(Foto: Emanuele Artom, Vanda Maestro e Giorgio Segre al Colle della Maddalena, primavera 1940 o 1941. Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea Digital Library.)