Un giorno imprecisato che potrebbe collocarsi nella primavera del 1944 l’ingegnere Bertin, che lavora alla Fiat ed è segretamente uno dei dirigenti della Resistenza, pedala su una strada sterrata a mezzacosta della val Praverso, sulle alture di Torrese, con la figlia Marta seduta sulla canna della bicicletta; quando incappa in una pattuglia tedesca che gli intima di fermarsi. Frena d’istinto, bruscamente; perché nella cartella ha qualcosa che i tedeschi non devono assolutamente trovare. Che fare?
Così comincia “Fuochi d’artificio”, il romanzo di Andrea Bouchard.
Aprile 1944, alpi piemontesi
Forse non mi perquisiscono
Mio padre frena così all’improvviso che la ruota di dietro della bicicletta si blocca, scavando un solco nella strada sterrata. Io scivolo lungo la canna contro il perno del manubrio, che mi si conficca nella gamba; ma non dico nulla, neanche “Ahi”, perché sono abituata a non lamentarmi mai.
“Perdonami” si scusa, mentre accenna a girare per tornare indietro.
Il rumore di uno sparo mi assorda e rimbalza sull’altro lato della stretta valle, con un’eco secca. Rimango immobile, senza respirare, ma il cuore non parte impazzito, come le prime volte che ho sentito i colpi di arma da fuoco. Cerco lo sguardo di mio papà per rassicurarmi, ma lo vedo impallidire. Mi sento persa.
Giù, in fondo al rettilineo, ci sono tre soldati tedeschi con una moto che sbarra il passaggio. Non si sono mai visti posti di blocco su questa stradina, che a mezza costa congiunge solo pascoli e baite di pastori isolate.
“AVANTI! VENIRE AVANTI!” grida uno di loro, facendo grandi cenni con la pistola con cui ha sparato in aria.
Mio padre scende lentamente dalla bicicletta e mi sussurra: “Cammina davanti a me e tieni tu il manubrio”. Toglie dalla sua borsa di pelle una grossa busta gialla e me la infila sotto la canottiera, contro la schiena. “Mettiti la maglietta ben dentro i pantaloni, guai se dovesse cascare”.
Obbedisco, ma la sento enorme e sono sicura che noteranno il rigonfiamento, nonostante il maglione che indosso.
Cammino guardando oltre i soldati, verso le montagne, per cercare rifugio dal panico che mi sta assalendo. E’ una splendida mattina di primavera; il sole, appena sorto, illumina le cime rocciose di fronte a noi e ci metterà ancora un po’ ad arrivare da questo lato della valle. Vorrei chiudere gli occhi, riaprirli, e ritrovarmi già al sole, oltre il posto di blocco, ed abbracciare mio papà così forte da fargli male.
“MANI IN ALTO!” Una voce gelida, abituata a comandare, mi riporta alla realtà. L’ufficiale ha rimesso la pistola nella fondina, ma gli altri due tengono il mitra puntato all’altezza delle nostre pance.
Lascio cadere la bicicletta e tiro su le mani, più in alto che posso, col risultato di sfilare la maglietta dai pantaloni, sui fianchi. Arrossisco per la vergogna di aver fatto già uno sbaglio e rilasso un po’ le braccia, ma ormai la canottiera è fuori.Un giovane ufficiale con gli occhi azzurri mi dice: “Bambina giù!” facendomi cenno di abbassare le mani.
Io ho 13 anni e mi infurio quando mi dicono ‘bambina’; maledico la mia bassa statura e il mio corpo magro, non ancora sviluppato. Ma ora ringrazio Dio dieci volte che mi abbia chiamato così, e con quel tono. Le bambine non sono pericolose e fanno tenerezza. Le bambine non si perquisiscono. Forse. Di solito. Ma ormai ho capito che in questa guerra non ci sono regole certe. Abbasso le braccia lentamente e le lascio rigide, aperte, senza il coraggio di sistemare la maglietta.
Un soldato si avvicina a mio padre e gli passa le mani sui fianchi per controllare che non abbia armi; gli prende il portafoglio e lo consegna al superiore, poi va a recuperare la borsa, accanto alla bicicletta.
“Ah, signor Bertin, lei ingegnere capo alla Fiat” dice l’ufficiale guardando i documenti, “può abbassare mani”.
“Sì, signor tenente. Lavoriamo anche per il vostro esercito” risponde simulando un orgoglio fascista.
“Perché fermati quando visti noi?”
“E’ stato l’istinto di proteggere la bambina. Temevo fosse in corso un combattimento. Mi scuso, ho sbagliato, ma non ho niente da nascondere” afferma tranquillo indicando la borsa.
Grande! E’ stato grande. Ha parlato dissimulando l’ansia alla perfezione. Io invece non sono all’altezza. Sento il viso infuocato e le vene che si gonfiano a ogni battito, nella gola e sulle tempie; sicuramente li insospettirò.
Il tenente controlla il contenuto della borsa, mentre i due soldati continuano a tenere i mitra puntati contro di noi e ogni tanto gli lanciano un’occhiata, quasi aspettassero da un momento all’altro ordine di fare fuoco. Io ho la bocca secca e imploro il sole che faccia presto ad arrivare, come se il suo calore avesse il potere di sciogliere quell’incubo.
“Alles gut. Tutto a posto” dice l’ufficiale, “Potete andare”.
Mi sento evaporare di sollievo.
Riconsegnano la cartella a mio padre che ringrazia e va a recuperare la bicicletta.
Poi il tenente fa un passo verso di me e i ciottoli della strada stridono sotto i suoi stivali neri. Un rivolo di sudore mi scende lungo il collo, nonostante l’aria fresca.
“Come tuo nome?” mi chiede.
Prima di abbassare gli occhi faccio in tempo a vedergli le labbra che si aprono in un sorriso, mentre lo sguardo resta duro, come se le gli occhi e la bocca non fossero collegati. Vorrei rispondere, ma non mi esce la voce. Mi sento la busta enorme contro la schiena, trattenuta solo da un lembo di maglietta al centro. Mio padre si affianca con la bicicletta e saluta i soldati.
Mentre mi siedo sulla canna, la maglietta si sfila completamente e la busta non cade solo perché mio papà mi stringe al petto.
Dopo poche pedalate si sente di nuovo, forte, la voce dell’ufficiale: “SIGNOR BERTIN! TORNARE INDIETRO”.
